Lezioni di persiano: la trasposizione di Invenzione di una lingua

Seppur escluso dalla corsa all’Oscar come miglior film in lingua straniera, Lezioni di persiano – disponibile dal 14 al 17 Gennaio 2021 sulla piattaforma #IorestoinSALA – coglie nel segno.

Il regista ucraino Vadim Perelman, che nel 2003 portò sul grande schermo l’intenso romanzo La casa di sabbia e nebbia di Andre Dubus III, amalgamando l’atavico sentimento d’insicurezza dei thriller mozzafiato alla pienezza poetica degli apologhi esistenziali, non sembra aver smarrito l’esauriente checkup dell’opportuna polivalenza espressiva.

L’adattamento del coinvolgente racconto Invenzione di una lingua, scritto dal versatile Wolfgang Kohlhaase, alla peculiare grafia delle immagini ne conferma invero la destrezza stilistica. Scevra dai velleitari ghirigori cari ai falsi dotti che scambiano le compiacenze manieristiche per il frutto della forza immaginifica. La sceneggiatura di ferro redatta con l’usuale perizia dall’esperto Ilja Zofin, artefice altresì di briosi copioni impreziositi dalla vivacità dei dialoghi, pone in risalto sia gli stilemi del cinema d’atmosfera sia, per l’appunto, l’emblematica egemonia delle parole piene su quelle vuote. Da par suo Perelman consolida l’intelligente carattere d’autenticità necessario a trasportare il pubblico nel clima ora di terrore ora di fiducia che contraddistingue, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, con la Francia occupata dai nazisti, l’intima epopea del detenuto ebreo Gilles. Fintosi persiano, con un libro orientale casualmente in tasca, per sfuggire all’impietosa fucilazione di massa. La prevalenza del gioco fisionomico degli attori rispetto alle soluzioni sceniche, inclini ad anteporre l’asciuttezza dell’antiretorica nell’intero arco psicologico ai riflessi carichi di simbolismi, non permette di aggiungere nulla sotto l’aspetto rievocativo ai tragici contesti scandagliati dai vari apologhi sull’Olocausto.

A differenza di Train de vie – Un treno per vivere, forte dell’ingegno creativo sciorinato dietro la macchina da presa dall’arguto Radu Mihăileanu, il valore terapeutico dell’umorismo cede spazio alla valenza mimica degli interpreti. Rendendo le parentesi ironiche dei passaggi esornativi. Ciò nondimeno il confronto tra l’ufficiale Koch, responsabile delle cucine nel campo di prigionia, e Gilles tiene gli spettatori sui carboni ardenti. Il tasso di azzardo congiunto all’istinto di conservazione crea un’efficace attesa. Mentre le sequenze collettive permettono all’ambiziosa fotografia di sbizzarrirsi, con sapienti gradazioni plumbee ed empatiche correzioni di fuoco, l’inesausto faccia a faccia costeggia dapprincipio una concretezza estranea a qualsivoglia estetismo. A lungo andare, tuttavia, l’austera tensione formale finisce per seguire i canoni del cinema d’avventura. Traendo linfa dal rilievo contenutistico dei primi piani che scavano nei volti degli appassionati protagonisti: l’aguzzino deciso ad aprire un ristorante a Teheran, una volta concluso l’atroce uragano di sangue del conflitto; l’internato disposto a inventarsi di sana pianta un lessico ai limiti del ridicolo, imparandolo miracolosamente a memoria, pur di portare a casa la pelle.

Lo sbrigativo disegno dei personaggi di fianco stenta invece ad acquistare un’ampia tastiera di sfumature. Sono infatti i soliti accenti, che condannano i comprimari ai ruoli fissi o stereotipati, a scandire gli scontati sussulti d’immane ferocia ed epidermica tenerezza del soldato innamorato ma crudele Max, dell’indiscreta kapò Elsa e dell’implacabile collega Jana. L’ossatura ritmica affidata pure all’interazione fra suoni diegetici ed extradiegetici, con le funzionali musiche che accompagnano i trapassi interiori, garantisce un saldo professionismo agli espliciti valori emotivi della trama. La pittura degli ambienti, col bosco limitrofo promosso inevitabilmente a fulgido prodromo di libertà e speranza, resta, viceversa, piuttosto slegata dal crescendo narrativo. Le performance di Nahuel Pérez Biscayart (Gilles) e Lars Eidinger (Koch) accrescono il prestigio spettacolare dell’analisi degli stati d’animo sottraendosi ai deleteri vezzi istrionici. Che si agitano tanto ed ergo comunicano poco. La loro comunicativa, al contrario, riesce, lontano da ogni sfumatura patetica, ad assemblare, cum grano salis, l’acre miseria morale, le piste ingannevoli, l’ostinata sfida dell’intelligenza, qualche prospettiva sarcastica e il bisogno di chiudere il cerchio. Lezioni di persiano regge perciò l’arduo confronto con i nobili predecessori ed estrapola dall’incubo mortuario il tipico slancio fiabesco della fabbrica dei sogni.

 

 

Massimiliano Serriello