L’Immortale: il gomorriano esordio registico di Marco D’Amore

L’esordio in cabina di regìa dell’attore casertano Marco D’Amore, divenuto celebre grazie al ruolo dell’ombroso Ciro Di Marzio, ribattezzato l’Immortale, in Gomorra – La serie, segna, attraverso l’insolito passaggio dal piccolo al grande schermo l’evoluzione espressiva degli eloquenti silenzi.

L’omonimo film, che scorge nell’insostenibile peso dell’esistenza attanagliata dai rimpianti il controcampo negativo della mitica nomea d’indistruttibile, mette, citando l’emblematica canzone di Celentano, una carezza in un pugno. L’evidente sincretismo tra ferrea foga ed estatiche esitazioni, lungi dal cercare conforto nell’impasse delle inquadrature adulatorie, innesca una fulgida scrittura per immagini.

L’ambizione di sublimare nell’epico la riapparizione del taciturno protagonista, ripescato nel Golfo di Napoli dopo la pallottola esplosagli a un centimetro dal cuore dall’amico fraterno Gennaro Savastano, trae linfa dal valore drammatico ed evocativo delle componenti tecniche. Osteggiate solo dai falsi dotti convinti di andare in profondità allorché si barcamenano nel guazzabuglio delle sottigliezze fuori luogo. A cogliere nel segno, invece, è la gamma cromatica posta in essere dall’avveduta fotografia di Guido Michelotti per esibire in chiave chiaroscurale l’interazione tra i personaggi e l’habitat.

Quello ravvisato in trasferta, ai piedi del Mare Baltico, dove il porto di Riga costituisce l’idoneo quadrivio dei traffici illeciti della teppa autoctona, in combutta coi moderni magliari partenopei, sembra però cedere l’estro genuino ai vezzi dello stilista visivo deciso ad aumentare i giri degli incanti formali. È il match-cut concepito accordando, in collaborazione con l’esperto montaggio di Patrizio Marone, il passaggio dal presente al passato, all’epoca degli strazi della città del Sole dovuti al terremoto del 1980, ad assicurare la densità contenutistica necessaria a trascendere i segni d’ammicco.

La messa in scena dei ricordi d’infanzia, di chiara ascendenza neorealista, sembra, comunque, più ispirata rispetto allo scandaglio noir connesso alla molla dell’action adrenalinica. Mentre il persistere delle pause contemplative, lacerate dagli scoppi di violenza, rientra, secondo copione, nella norma, per veicolare l’interesse del pubblico, con l’ausilio delle reiterate correzioni di fuoco, verso gli sguardi carichi di senso dell’Immortale, le scene di Ciro bambino convincono appieno.

Merito dell’assoluta padronanza degli echi e dei controechi, che richiamano alla mente ora Matrimonio all’italiana di Vittorio De Sica, con un panificio tramutato in un fugace ma tenero paese delle meraviglie, ora C’era una volta in America. Il legame segreto con l’indimenticabile capolavoro letterario À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, ispiratore del compianto Sergio Leone, ricava un insolito slancio dall’ossatura ritmica garantita dalle empatiche musiche del collaudato gruppo post-rock Mokadelic.

A fungere da alacre collante figurativo, sulla scorta degli stilemi migliori della geografia emozionale, ci pensa il particolare acume dei personaggi di fianco congiunti all’elegiaca efficacia dei suoni diegetici ed extradiegetici. Il nitore introspettivo contemplato sin dalla fase di sceneggiatura – redatta insieme all’affiatato gruppetto costituito da Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Francesco Ghiaccio e Giulia Forgione – elude poi lo scoglio dei clichés. Anziché seguire la maniera degli arcinoti thriller, intenti ad anteporre i timbri spettacolari individuati nei fiatoni monocordi all’analisi dei compositi stati d’animo, uniti al palpitante rapporto col territorio, il redivivo prosieguo alza davvero l’asticella.

In tal modo anche il teatro a cielo aperto dell’amara attualità, in cui Ciro Di Marzio s’impone in veste di leader degli immigrati stufi di stare “co’ à capa calata”, rompe ogni indugio garantendo notevole forza significante ai riverberi mitopoietici. La capitale della Lettonia, con i litorali bassi e la boscaglia limitrofa, simile alla selva di dantesca memoria, acquista quindi il dono di riflettere anche i modi d’agire legati ai colpi di scena caldeggiati dal pubblico dai gusti semplici.

A beneficio dei fruitori meno ingenui, avversi cioè ai paesaggi piatti della location straniera, attanagliata dai sogni di gloria tradotti in spargimenti di sangue, l’ebbrezza dell’iniziazione criminosa, caratterizzata dai moti d’affetto per una vocalist dura nella lotta quotidiana e leale nello spirito, colpisce in conclusione al cervello, al cuore e allo stomaco. Con l’ausilio del cast capace di convertire lo spettacolo di second’ordine dell’arte recitativa nel nodo cruciale dell’intero intreccio.

L’assidua ricerca dell’effigie paterna, che connette la crudezza oggettiva di ieri, venata nondimeno d’implicita speranza, con la disillusione di oggi, non esente dall’alienante trasporto caro ad Antonioni, cadenza le ubbie e i sobbalzi dell’orfano divenuto un mandatario della camorra allergico ai padroni. Per la gioia dei fan della serie. Che trovano pane per i loro denti. E con il consenso, nemmeno troppo restio, delle platee annoiate dalle sequenze madri dall’effetto incerto. Sedotte, con tutto ciò, dall’ampio respiro lirico impresso ad affondi tragici ed elementi dinamici dagli inopinati risvolti western de L’Immortale.

 

 

Massimiliano Serriello