Qualcosa di meraviglioso: quando la Francia guarda a The millionaire

Pierre-François Martin-Laval, assai più a suo agio davanti alla macchina da presa, come attore dal piglio poliedrico, che dietro, in cabina di regìa, fa un inutile giro di boa in Qualcosa di meraviglioso.

In questo caso, alla registrazione nuda e cruda dei mesti eventi segue uno stile frantumato che, oltre a soffrire d’incongruenze, trae partito, in modo anche piuttosto esplicito, dal ben più riuscito ed emozionante The millionaire di Danny Boyle, insieme agli apologhi sul riscatto attraverso la spinta di un mentore dai modi grezzi ma dal cuore d’oro.

L’approdo in Francia del piccolo Fahim e di suo padre Nura, sfuggiti alla crudezza delle rivalse in seguito agli orridi conflitti scoppiati nell’incolto villaggio del Bangladesh, avvolto però dalla bellezza degli scorci paesaggistici, illuminati dal colore suggestivo dei tramonti, innesca dinamiche risapute. Gli echi dei capolavori chapliani, dell’abile Roberto Benigni con La vita è bella e, persino, del sottovalutato ma arguto ed emozionante La ricerca della felicità di Gabriele Muccino prendono piede per mezzo di gesti sovraccarichi frammisti ad attimi pietistici. Compensati, almeno in minima parte, dalle situazioni umoristiche che si vengono a creare col gioco degli equivoci. Dovuto soprattutto alle difficoltà incontrate dallo spaesato genitore nell’apprendere la nuova lingua.

La disinvoltura, invece, del figlioletto strappa qualche sorriso accondiscendente, quantunque prenda troppo spunto dai romanzi di formazione di Charles Dickens, che il geniale Chaplin seppe però rileggere con fulgido estro, ed espone insistentemente dei piani di risposte emotive assai prevedibili. Qualunque velleità documentaria cede così il passo alle numerose scene chiave al servizio dei timbri favolistici.

La vera storia del pre-adolescente iniziato dall’alacre Nura all’originale filosofia di vita degli scacchi diviene in tal modo un’avventura assai prevedibile. L’ago della bilancia, costituito dall’analisi degli autentici stati d’animo dinanzi alla precarietà del vivere in capo al mondo, sembra un fragile guscio di lumaca che va in mille pezzi al minimo contatto con l’aneddotica pensata per intingere le lacrime nelle risate. Sull’esempio dei prototipi statunitensi. Con Voglia di tenerezza e Fiori d’acciaio in prima fila.

La complicità maschile, tuttavia, almeno in questo caso, risulta molto meno persuasiva di quella femminile. Fortunatamente per gli spettatori il ruolo del burbero insegnante, che addestra l’inquieto Fahim ad alternare l’inarrestabile sprint agli indugi strategici, calza alla perfezione al gigionesco Gérard Depardieu. Il suo proverbiale istrionismo, congiunto alla mole bonaria e al contrappunto di alcune azzeccate note intime, salva, se non altro, la trama dall’impietoso incedere della disdicevole noia di piombo.

L’inidonea magniloquenza, però, dei movimenti di macchina da destra verso sinistra, per punteggiare il peso specifico di ogni sprezzatura drammatica, e dei carrelli dall’alto, decisi a esibire il margine d’attesa riposto nei vari match, certifica lo stesso l’inconsulta penuria delle debite mezze tinte. Lo sfumato personaggio del maestro d’inattesi rovesci, piuttosto simile al Burgess Meridith di Rocky e a J. K. Simmons in Whiplash, nonostante la perizia recitativa del fuoriclasse transalpino, stenta, perciò, ad alzare da solo il tiro.

L’assenza di una dotta tensione formale, lungo la cavalcata dell’estroverso ragazzino all’agnizione decisiva, sull’esempio di Magnus Carlsen, scacchiere norvegese divenuto anch’egli campione in tenera età, concede in Qualcosa di meraviglioso parecchie “pinzillacchere” sul piano del contenuto e dell’ormai remota naturalezza.

 

 

Massimiliano Serriello