Qui rido io: una risata ci salverà con l’Eduardo Scarpetta di Servillo

Il sublime e il ridicolo, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo: così parlò Benedetto Croce, spiegando a Eduardo Scarpetta la natura originale e, in un certo senso speculare, della parodia. Ai versi altisonanti del vate D’annunzio fa eco lo sberleffo di una messa in scena irriverente, che mette alla berlina il tragico, rovesciandolo. Il riso è una cosa seria, non è solo un balsamo per l’anima, ma anche un atto di resistenza, un antidoto al mal di vivere, all’oppressione del quotidiano, dei rapporti di forza.

La parodia, insomma, è nobilissima e, talvolta, può finanche superare, nel valore, l’oggetto del suo scherno. In fondo, per esempio, anche il teatro di Carmelo Bene, che si avventava sui classici, amputandoli, riducendoli, facendoli a pezzettini, era mosso dall’intento di dissacrare il mito dell’autore e con esso tutta la sudditanza nei confronti del testo, che veniva minuziosamente decostruito.

Scarpetta assiste alla rappresentazione de La figlia di Iorio e, mentre si consuma la scena madre, già s’immagina con una parrucca in testa a sbeffeggiare la lamentevole Mila di Codra. Da lì parte un processo sfibrante, durato alcuni anni, in quanto l’autore partenopeo fu accusato di plagio, sebbene, alla fine, riuscì a spuntarla, dimostrando che la sua era una rimodulazione in chiave comica dell’opera dannunziana. Il dramma alla borghesia e la risata al popolo: questo manicheismo di quart’ordine rivela l’ottusità di certi intellettuali dell’epoca, che non seppero cogliere l’innovatività di Scarpetta, che ebbe il pregio (e la giusta immodestia) di considerarsi un grande commediografo, un artista vero, senza complessi di inferiorità nei confronti di alcuno. Mario Martone, ancora una volta in coppia con Ippolita Di Majo, con la quale collabora dai tempi de Il giovane favoloso (2014), descrive in Qui rido io il personaggio nella dimensione pubblica e privata: il grande attore, l’uomo di teatro e il fedifrago, il megalomane, il padre incapace di amare come avrebbe dovuto tutti quei figli che concepì con le sue varie amanti.

Ampio spazio è infatti dato alla famiglia De Filippo, ovvero Eduardo, Titina e Peppino. C’era molta promiscuità in casa Scarpetta, però tollerata, sebbene quell’apparente normalità non riusciva a occultare un naturale risentimento covato da chi non si sentiva desiderato quanto avrebbe voluto. E poi le manie di grandezza: le dimore sontuose, le enormi ville, le carrozze, i cavalli, il vestiario, le sue foto appese in ogni angolo della casa, i banchetti pantagruelici, il frigidaire fatto venire direttamente da Parigi. Nonostante questi eccessi, Scarpetta capì la forza della sua arte e seppe valorizzarla adeguatamente. Felice Sciosciammocca, il fortunatissimo personaggio teatrale rielaborato da Eduardo, rimpiazzò la maschera secolare di Pulcinella nel cuore del pubblico partenopeo. Un’impresa titanica.

Nella sua autobiografia, Cinquant’anni di palcoscenico (1922), l’attore scriveva: “La comicità deve nascere dall’ambiente, dalla situazione scenica, dal personaggio. Ma io credo di aver avuto le mie buone ragioni di averla cercata soprattutto nella borghesia, dove essa zampilla più limpida e copiosa”. Bisognava superare alcuni luoghi comuni che ghettizzavano la commedia a teatro, relegandola in un ruolo minore. Miseria e nobiltà, Un turco napoletano e Il medico dei pazzi, che poi furono felicemente trasposti cinematograficamente (interpretati da Totò), sono divenuti dei veri e propri classici. A suggellare questa felice tendenza subentrò successivamente il grande teatro di Eduardo De Filippo che, sulla scia delle tracce paterne, costruì e mise in scena opere straordinarie, destinate a rimanere indelebilmente incise nell’immaginario collettivo.

Forte di un cast in stato di grazia spaziante da Toni Servillo a Gianfelice Imparato, Qui rido io farà sicuramente meritevole incetta di premi, tra settantottesimo Festival di Venezia e David di Donatello.

 

 

Luca Biscontini