Stasera in tv Il figlio di Saul di László Nemes

Stasera in tv su TV 2000 alle 20,55 Il figlio di Saul, un film del 2015 diretto da László Nemes. Ha partecipato in concorso al Festival di Cannes del 2015, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria. Diretto dall’esordiente regista ungherese, allievo di Béla Tarr, e scritto con Clara Royer, Il figlio di Saul riporta l’attenzione sugli orrori dei campi di concentramento e prende avvio nell’Ottobre del 1944 quando, ad Auschwitz-Birkenau, Saul Ausländer da membro del Sonderkommando è costretto ad assistere i nazisti nei loro piani di sterminio. Con la direzione della fotografia di Mátyás Erdély, le scenografie di László Rajk, i costumi di Edit Szücs e le musiche di László Melis, Il figlio di Saul nasce nel momento in cui, mentre da assistente era sul set di L’uomo di Londra a Bastia, Nemes si ritrova tra le mani il volume La voce dei sommersi, che racchiude le testimonianze dei membri del Sonderkommando. Il film ha vinto un Oscar per il miglior film straniero, un David di Donatello, un Golden Globes, un BAFTA, un premio ai London Critics e ha ottenuto una candidatura ai Cesar. Con Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Björn Freiberg, Sándor Zsótér, Todd Charmont, Christian Harting, Attila Fritz.

Trama
Nel 1944, nell’orrore del campo di concentramento di Auschwitz, Saul Auslander, un prigioniero costretto a bruciare i corpi della propria gente nell’unità speciale Sonderkommando, trova una propria sopravvivenza morale salvando dalle fiamme il corpo di un giovane ragazzo che crede suo figlio. Suo obiettivo sarà quello di cercare un rabbino che possa aiutarlo a dargli una degna sepoltura.

Il giovane László Nemes (1977), al suo esordio dietro la macchina da presa, realizza un film decisivo, importante, laddove la questione dell’orrore dei campi di concentramento nazisti viene affrontata con sguardo ‘pudico’, nel senso che, pur penetrando, come mai prima si era tentato, all’interno delle fabbrica dello sterminio, il regista ungherese non cede, rivelando grande coerenza stilistica, alla tentazione della ‘cosmesi’, ovvero della spettacolarizzazione della più grande catastrofe della Storia. L’insistenza della macchina da presa sul volto impietrito di Saul Auslander (Géza Röhrig), ebreo ungherese arruolato nel Sonderkommando, ovvero quel gruppo di prigionieri deputato alle operazioni di realizzazione del ‘trattamento’ dei deportati, a scapito del resto dell’azione, che, seppur concitata, rimane in un ostinato fuori campo, è funzionale proprio alla necessità di testimoniare i fatti senza ricorrere all’aberrante ridondanza della ‘rappresentazione’ che, in quest’occasione, non avrebbe aggiunto alcunché, se non soddisfare il voyeurismo, neanche troppo inconscio, di uno spettatore sempre più sadicamente attratto dai limiti del filmabile.

Nemes, che probabilmente ha compulsato l’interessante Immagini malgrado tutto di Georges Didi-Huberman, dimostra di avere profondamente meditato sul piano etico-estetico, giacché sa bene che, nonostante le varie testimonianze che hanno riferito quanto accaduto all’interno dei campi di sterminio, non esistono dei documenti visivi che attestino i fatti quando ancora le operazioni della ‘soluzione finale’ erano in corso. Ed infatti vediamo, durante una significativa sequenza, uno dei componenti del sonderkommando tentare di scattare una foto mentre si svolgono le manovre di ammassamento dei morituri, da inviare all’esercito di liberazione, nella speranza di essere tratti in salvo quanto prima; non è un mistero, d’altronde, che anche la stessa popolazione tedesca per anni sia rimasta all’oscuro, non potendo credere a quanto veniva narrato dai pochi sopravvissuti, dato che l’assurdità e soprattutto l’antieconomicità di un tale processo davvero rendevano non credibile quanto riferito.

I vari fuori fuoco con cui sapientemente il regista sfuma ciò che avviene in campo lungo (capiamo bene dal sonoro che sta avvenendo un’intollerabile mattanza) rispondono all’esigenza di non accondiscendere alla richiesta di uno sguardo che voglia penetrare laddove mai nessun operatore esterno è giunto, e solo per rari e brevissimi momenti si coglie quanto davvero sta accadendo. Nella realtà, infatti, possediamo, seguendo quanto è esposto da Didi-Huberman, solo pochissime agghiaccianti istantanee delle operazioni di cremazione dei corpi gasati nelle fosse di cinerazione all’aria aperta all’interno del campo di Auschwitz (dove d’altronde si svolge il film), e, quindi, rimanendo fedele a quanto effettivamente ci è pervenuto, Nemes si attiene all’unica documentazione plausibile, senza alcuna smania – arbitraria – di ricostruzione dell’azione. La sua scelta è coraggiosissima, e il suo, difatti, non è un ‘bel film’, cioè non collude mai con l’aspettativa di un pubblico che vorrebbe vedere riferirsi, implacabilmente, la cartografia dell’orrore, e allora si rimane appesi alle pieghe del volto impassibile di Saul, che, attraverso la sua immobilità, costituisce la testimonianza più efficace di quanto coerentemente viene negato allo sguardo.

Stupisce, proprio per la fermezza di tale posizione, che Il figlio di Saul abbia comunque incassato tanti importanti premi (Premio Oscar al Miglior Film Straniero, Premio della Giuria al Festival di Cannes, Golden Globe al Miglior Film Straniero, David di Donatello al Miglior Film Europeo), a dimostrazione del fatto che forse si stia realmente verificando uno slittamento nel versante della fruizione, che finalmente riesce a slegarsi dai consueti orizzonti percettivi, in favore di nuove modalità in cui, superando la logica della rappresentazione, viene messa a frutto un valutazione etica che riposiziona le prospettive usuali; un processo comunitario tramite cui davvero vengono riformulate le coordinate dello sguardo, e, dunque, anche la ricostruzione degli avvenimenti storici passa per questo decisivo mutamento.

 

 

Luca Biscontini