Stasera in tv L’albero degli zoccoli, il capolavoro di Ermanno Olmi

Stasera in tv su Rai Storia alle 21,10 L’albero degli zoccoli, un film del 1978 diretto da Ermanno Olmi, vincitore della Palma d’oro al 31º Festival di Cannes. Il film, le cui riprese furono realizzate tra Febbraio e Maggio del 1977, utilizza il dialetto bergamasco della zona in cui l’opera è ambientata (il film è stato girato prevalentemente nella bassa pianura bergamasca orientale compresa tra i comuni di Martinengo, Palosco, Cividate al Piano, Mornico al Serio, e Cortenuova), mentre a Treviglio è stata girata solo una scena, l’arrivo degli sposi contadini in città (Milano). La pellicola fu poi doppiata in italiano dagli stessi attori per la distribuzione italiana. Tutti gli attori sono contadini e gente della campagna bergamasca senza alcuna precedente esperienza di recitazione. I loro nomi di battesimo (come pure quelli dei personaggi da essi interpretati), contrariamente alla regola che vuole il nome posto sempre davanti al cognome, sono stati fatti scorrere nei titoli di coda dopo il cognome per una precisa scelta poetica del regista, che intendeva in questo modo rappresentare la condizione umile e assoggettata dei contadini di quegli anni. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare.

Trama
Bassa bergamasca, fine ‘800. Quattro famiglie di contadini condividono le fatiche che quella terra riserva loro ogni giorno. Non c’è soltanto il lavoro a scandire le giornate, anche l’amore è protagonista, come quello fra Stefano (Pilenga) e Maddalena (Pezzoli). Ma la povertà è sempre in agguato. Difficile e forse anche inutile dilungarsi per raccontare la trama di questo film che, appunto, va visto e non narrato.

“Ermanno Olmi affronta finalmente le proprie radici, attraverso le storie incrociate di quattro povere famiglie contadine del Bergamasco alla fine dell’Ottocento (gli interpreti sono non professionisti e parlano un dialetto stretto). I Batistì, i Runk, i Finard, i Brena vivono in una cascina lombarda, e subito una didascalia ci avverte: la casa, la terra, gli alberi, parte del bestiame e degli attrezzi appartengono al padrone e a lui spettano due parti su tre del raccolto. La vita dei contadini è dura, e i ruoli sociali sono rigidamente codificati, tanto che, fin dall’inizio, al contadino Batistì sembra incredibile che il parroco del vicino villaggio gli consigli di mandare a scuola il figlio Minek, dotato di viva intelligenza. Malgrado le difficoltà, tuttavia, Minek viene mandato a scuola e questo costituisce già il primo ‘scandalo’, il primo episodio anomalo in una storia che per il resto sembra seguire l’alternarsi delle stagioni (dall’autunno alla primavera, con esclusione dell’estate) e il consueto ritmo delle piccole e grandi fatiche quotidiane (mostrate sempre con scrupolo documentaristico): la cura dei campi e degli animali, lo sgozzamento del maiale, le sagre paesane, il raccolto delle pannocchie, le veglie serali, durante le quali si recita il rosario, si raccontano storie fantastiche o si intreccia un timido amore tra i due giovani Stefano e Maddalena (che poi si sposeranno). Foriera di ben più gravi conseguenze sarà invece la trasgressione finale: Minek rompe uno dei suoi zoccoli e, per fargliene un altro paio, Batistì taglia di nascosto il tronco d’uno degli alberi, che appartengono al padrone. Quando questi se ne accorge, Batistì viene cacciato in malo modo e deve lasciare la cascina con tutta la sua famiglia e le sue povere cose, mentre gli altri non possono far altro che compiangerli. Siamo in un universo privo di coscienza di classe (durante la fiera, a uno dei primi comizi socialisti, il nonno Finard trova a terra un marenghino d’oro e il suo unico interesse è di impadronirsene senza che nessuno se ne accorga), permeato di cattolicesimo tradizionale (è continuo lo sgranarsi di litanie, preghiere collettive, rosari), cui non mancano, però, sfumature pagane (a volte si ricorre a pratiche magiche e a guaritrici).

I protagonisti umili del cinema di Ermanno Olmi non rivendicano mai esplicitamente una maggiore giustizia sociale ‒ i legami forti sono quelli familiari, e se si manifestano solidarietà a livello più ampio, sono basate sulle caratteristiche biologiche (i vecchi, gli adulti, le donne, i giovani, soprattutto gli onnipresenti bambini). Però essi non rinunciano mai a porsi come creature, dotate di sensibilità e individualità: in una parola, di anima. ‘Cinema d’anima’, quello di Olmi, lo è non nel senso d’uno spiritualismo conciliatorio, ma, più radicalmente, nel suo rifiuto di assumere fino in fondo la prassi, corrente nel cinema, di costruire personaggi di puro contrappunto drammatico-dialettico rispetto ai protagonisti. Sembra che per Olmi tutti i personaggi inquadrati dalla macchina da presa, anche quelli più negativi o secondari, abbiano in un certo senso diritto a una loro storia, fosse pure una micro-storia, che deve essere comunque almeno accennata. Prendiamo pure il personaggio del padrone, caratterizzato come un uomo chiuso, solitario, scontroso, incapace di sentimenti; egli, comunque, è un appassionato di musica, ama ascoltare al fonografo dischi d’opera, le cui note si diffondono nella campagna, arrivando anche alle orecchie incantate dei contadini. Ma non solo: c’è nel film una scena abbastanza misteriosa, il cui significato appare tutt’altro che univoco, e che di solito (forse proprio per questo) viene trascurata dagli esegeti. Nella villa è in corso una serata musicale, ospiti eleganti ascoltano un giovane pianista dall’aria romantica, ma il padrone non è tra loro ‒ cupo e solitario come al solito, stranamente se ne sta fuori, nel porticato, a osservare (non visto) il tutto da una finestra, come fosse un intruso. La sua espressione è indecifrabile, indecifrabile il significato della scena che si svolge sotto i suoi occhi: vediamo il giovane che suona (non sappiamo chi sia, né lo sapremo in seguito), e accanto a lui, in piedi, la moglie del padrone, che lo osserva con aria rapita. Olmi, in questo modo, suggerisce attraverso poche immagini una possibile storia, che sta a noi intuire: questo intendiamo quando diciamo che nel mondo di Olmi tutti hanno un’anima. Rimane sottinteso e come taciuto, invece, il fatto che tutti abbiano un sesso. I bambini, i neonati, compaiono come per miracolo: pensiamo al bambino già di qualche mese che i novelli sposi in viaggio di nozze in una Milano manzoniana, percorsa da fremiti di rivolta (è il tempo di Bava Beccaris), si vedono affidare da una loro parente, Madre Superiora in un convento, perché lo adottino. Per questa sua doppia reticenza (sociale e sessuale), il film, Palma d’oro per il miglior film a Cannes nel 1978, suscitò polemiche in alcuni ambienti di sinistra. Ma la lettura che se ne è fatta, in apparenza conciliatoria e per alcuni addirittura integralista, potrebbe essere agevolmente rovesciata: in fondo, Batistì compie il grave atto ‘sovversivo’ di confezionare gli zoccoli nuovi per il figlio, proprio mentre, rispondendo alla moglie che sta in un’altra stanza, recita il rosario, e le litanie coprono il rumore. La devozione non esclude l’istintivo affiorare di un sentimento elementare di giustizia e anzi, in un certo senso, se ne fa strumento”.
(Alessandro Cappabianca, Enciclopedia del Cinema – Treccani, 2004)

 

 

Luca Biscontini