Un altro giro: l’alcol terapia di Thomas Vintenberg

I nuovi applausi riscossi da Thomas Vinterberg con Un altro giro, inclusa la nomination all’Oscar come miglior regista, non devono trarre in inganno.

La fase calante, cominciata dopo lo straniante ed empatico Festen, in linea con i rigorosi precetti del movimento cinematografico Dogma 95, trova conferma nell’ennesima rilettura sotto banco dell’amaro ed elegiaco war movie Il cacciatore di Michael Cimino. Debitore a propria volta, nella complicità virile del matrimonio e della caccia al cervo che precedono la partenza per il Vietnam, dell’assoluto carattere d’ingegno creativo di John Cassavetes in Mariti.

Le gran bevute, lo stato di ebbrezza e gli slanci goliardici, dietro cui si cela l’illusione di esorcizzare la morte sulla falsariga altresì del toccante ed esilarante Amici miei di Mario Monicelli, ritornano a scandire l’atroce rovescio della medaglia congiunto all’utopica egemonia dell’amor vitae sul cupio dissolvi. A differenza del previo apologo sul fallace anticonformismo La comune, conforme allo scandaglio introspettivo degli usi e dei costumi danesi associati all’ennesima chimera dell’avventura, l’emblematico giro del film chiude il cerchio passando dall’euforia alla rassegnazione per poi introdurre una nota di speranza col ritorno alla gioia.
La solidità contenutistica ravvisabile negli esami comportamentistici, nei dati antropologici ed etnologici, nelle pose stralunate, dovute alla monotonia che attanaglia il tran tran quotidiano, cede presto spazio ad alcune ipotetiche invenzioni formali. Attinte in modo lampante all’altrui estro. Balza, infatti, agli occhi che la vicenda dei quattro insegnanti decisi a uscire dal torpore dell’apatia prendendo partito dal bizzarro sistema dottrinale del filosofo Finn Skårderud fondato sull’alcol terapia scopiazzi platealmente diversi numi tutelari. La molla dell’ispirazione genuina, relativa al mix di crudezza analitica ed estasi visionaria, viene perciò gettata alle ortiche per riindirizzare i richiami ora a Trainspotting di Danny Doyle ora agli intimisti ed epidermici capolavori del maestro Ingmar Bergman nei prevedibili binari degli ampollosi movie moments. Vampirizzati dall’attore feticcio Mads Mikkelsen nel ruolo del professore di storia Martin.

Professore che converte in schietta partecipazione emotiva la noia di piombo dell’instabile classe di studenti e studentesse dallo sguardo sognante, facendoli partecipi dei motteggi di certi illustri beoni della levatura dell’illustre ministro britannico Winston Churchill. Secondo cui l’ora più buia era quella senza whiskey. La bottiglietta d’acqua, piena chiaramente di vodka, strappa invece qualche franca risata sul campo di calcio dove Tommy, una volta raggiunto il tasso alcolico richiesto, tenta, in mezzo alla inevitabile congerie d’imbarazzi ed equivoci, d’infondere l’idoneo spirito di squadra ai pulcini bisognosi di fiducia. Mentre le componenti manieristiche prendono piede nel coro di voci bianche guidate con inusitato trasporto da Nikolaj nell’esecuzione dell’inno nazionale, per animare il copione con gli strambi balzi tramutati in autentici moti dell’anima, il proseguo ricalca l’andazzo dei mélo a corto d’acume. L’aula di psicologia in cui Peter aiuta l’incerto discente di turno a vincere l’angoscia, i consorzi domestici contraddistinti al contrario dall’incomunicabilità coniugale, gli anfratti dedicati alle sbronze in allegria, i corridoi percorsi in nervosa solitudine, le parentesi all’aperto, a contatto con la natura, tradiscono, appunto, l’inane abilità di confezione della manchevole cifra stilistica. Intenta ad anteporre ai farseschi ed evocativi chiaroscuri interiori il capriccio di dare un colpo al cerchio dell’immediatezza espressiva, per corrispondere alle attese delle platee dai gusti semplici, e uno alla botte dei soliti echi shakespeariani. A beneficio degli spettatori scaltriti.

L’insistito ricorso alla correzione di fuoco esemplifica, quindi, il bisogno di vederci chiaro andando ad affiancarsi all’uso virtuosistico della macchina a mano nel dinamismo dell’azione. Modulata dai soprassalti di rabbia e dagli eloquenti silenzi di Martin con l’intristita moglie Trina. L’impasse del déjà-vù, con l’appello in filigrana ad Al Pacino in Serpico che riceve il benservito dalla compagna delusa in un locale pubblico per evitare scenate, certifica l’involuzione d’un autore coi fiocchi finito a costruire castelli di carta. L’arcinoto brindisi funerario, in omaggio all’intesa fanciullesca che anche nell’età adulta non paga dazio agli schiaffi della dea bendata e alla cagionevolezza dei facili entusiasmi, rimanda di nuovo all’epilogo del già citato Il cacciatore. L’evidente alterazione cromatica, l’apertura del diaframma negli zoom in avanti sui volti spesso smarriti, a volte viceversa birichini, sull’esempio del guru Lars von Trier, e gli sfondi pittorici, quantunque catturati con zelo, risultano, stringi stringi, meri preziosismi. Incapaci di dispensare a piene mani la forza significante delle tecniche di straniamento. Nemmeno il balletto conclusivo, che celebra la fine dell’anno scolastico con piroette in chiave musical, prende le debite distanze dall’attitudine di celare l’insistito copia e incolla dietro l’ipotetico candore dell’alta illustrazione. Un altro giro, a dispetto della maturità professionale dell’intero cast, che ci dà dentro di brutto per toccare da vicino la tematica sempre attuale del distanziamento e dell’avvicinamento, resta lontano anni luce dal connubio d’incisivi semitoni ed empiti poetici delle opere di pensiero decise davvero ad andare oltre gli sterili colpi di gomito.

 

 

Massimiliano Serriello