Un’avventura: il concept album movie di Marco Danieli sulle note indimenticabili di Battisti e Mogol

Nel guardare un film come Un’avventura viene di default ripensare a quello che nei bei tempi che furono, ossia agli albori del filone in questione negli anni Cinquanta, era stato battezzato nell’ambiente e tra gli addetti ai lavori “musicarello”.

Sottogenere, questo, che rispetto agli inizi ebbe successivamente, alla metà degli anni Sessanta, un boom da un punto di vista produttivo e una significativa svolta in termini di DNA e pubblico di riferimento. Ma, con il passare dei decenni, la suddetta etichetta ha assunto per moltissimi un’accezione negativa, meritevole di essere rispedita prontamente al mittente. E, allora, per non offendere la suscettibilità di qualcuno la mettiamo da parte e chiamiamo in causa il musical vecchio stampo, ma con le debite distanze e le giuste proporzioni.

Nel caso specifico dell’opera seconda di Marco Danieli, alcuni ingredienti dell’uno e dell’altro, con dosaggi differenti, hanno trovato spazio sulla timeline, dando così vita ad un mix. Tuttavia, al netto di tutto ciò che è approdato sullo schermo, forse sarebbe più corretto parlare di un “concept album-movie”, con Un’avventura che ha trasposto al cinema quel modus operandi che nel mercato discografico ritroviamo in progetti nei quali le canzoni contribuiscono a dare un significato nel loro insieme, spesso ruotando attorno a un unico tema oppure sviluppando complessivamente una storia che può essere strumentale e compositiva.

Cinematograficamente parlando non siamo nuovi a questa tipologia di operazione dalle nostre parti, con la mente che torna a Jolly Blu di Stefano Salvati e, soprattutto, a Questo piccolo grande amore di Riccardo Donna, ma è esattamente ciò che il regista di Tivoli ha realizzato trasformando in immagini, suoni, parole e musica lo script che Isabella Aguilar ha “partorito” sulle note e sui testi dei primi due indimenticabili dischi d’esordio di Lucio Battisti. Ed è proprio su quei due capolavori discografici del 1969 e 1970, su gran parte dei brani che li vanno a comporre e che portano la firma indissolubile del duo Battisti e Mogol, che ha preso forma e sostanza Un’avventura.

Nasce così la storia di Matteo (Michele Riondino) e Francesca (Laura Chiatti), che, dopo avere scoperto l’amore, si perdono, si ritrovano, si rincorrono, ognuno inseguendo il proprio sogno: lui vuole diventare un musicista e lei vuole essere una donna libera. Francesca gira il mondo per cinque anni, mentre Matteo rimane a scrivere canzoni d’amore. Quando la prima ritorna al paesino porta con sé il vento di cambiamento degli anni Settanta, fatto di emancipazione, progresso ed evasione. I due si ritrovano e il loro amore rinasce più forte di prima, ma la loro storia seguirà sentieri inaspettati.

Insomma, quello che si palesa davanti agli occhi del fruitore altro non è che l’ennesimo dramma sentimentale fatto di tira e molla, lasciate e riprese, tradimenti e perdoni, che non può non seguire un percorso e delle linee guida ormai ampiamente codificate e tracciate. Ma, se la prevedibilità degli eventi narrati sulle pagine di un copione già scritto da secoli di intrecci amorosi felici o travagliati (già affrontati seguendo altre traiettorie decisamente più riuscite ed emozionanti, dallo stesso Danieli, nel suo fortunato esordio La ragazza del mondo) fa parte delle regole del gioco, dall’altra il didascalismo dilagante dal primo all’ultimo fotogramma utile della timeline è, a nostro avviso, l’insormontabile ostacolo che la scrittura prima e la sua trasposizione poi non sono riuscite a oltrepassare.

La Aguilar si limita a mettere su carta e in continuità una successione di scene che altro non sono che una raccolta di parentesi canore e danzeresche che fanno delle canzoni del celebre duo la materia prima da animare, con il regista e la complicità dell’ottima fotografia di Ferran Paredes Rubio impegnati nel dare forma e sostanza cinematografica alla confezione.

Sulla timeline si materializzano, dunque, una dopo l’altra, una serie di sequenze che, tra performance in playback e altrettante in presa diretta, assomigliano moltissimo a dei videoclip. Fatta eccezione per qualche guizzo e nota di merito, nel complesso è questa la sensazione generale che scaturisce dalla visione, alla quale si aggiunge l’amaro in bocca lasciato dal fatto di non avere sfruttato di più il contributo coreografico di Luca Tommassini.

Francesco Del Grosso