Cry Macho – Ritorno a casa: lo stile classico del vecchio leone Clint

È tornato ancora a ruggire Clint Easwood. Dietro e davanti la macchina da presa. Come gli è congeniale. Con Cry Macho – Ritorno a casa.

Alla veneranda età di novantuno anni, corroborato dalla destrezza mimica, dalla solida fama di aedo del cinema americano, duro nella lotta, ma leale nell’animo, in virtù della sensibilità dispiegata cum grano salis, lontano dalle secche della retorica e dall’estetica dei colossi cinematografici dai piedi d’argilla, l’ex attore feticcio del nostro Sergio Leone, pur serbando fulgida memoria degli ammaestramenti ricevuti dal guru capitolino, sciorina in cabina di regia lo stile classico, estraneo alla tentazione dell’iperbole, per suggerire agli spettatori l’incanto della scoperta dell’alterità. Che prende piede quando una realtà dapprincipio estranea, per motivi linguistici, antropologi ed etnografici, diviene familiare. Intima. Ed ergo toccante. Al riparo dai vani virtuosismi tecnici che tradiscono la smania di ergersi ad autori tout court.

Nell’incipit tipicamente eastwoodiano, con la scritta dell’inseparabile WB (Warner Borothers) seguita dal suono aggraziato ed extradiegetico di una chitarra, dalla geografia emozionale cara all’identitario genere western, dall’effigie dell’ennesimo ranch, degli amati cavalli, dell’inseparabile cappello, della tazza di caffè, sorseggiato in barba ai cascami della modernizzazione economica e dello sfrenato consumismo, l’anno 1979 è rievocato in filigrana. Senza dilatare l’humus dell’immaginario collettivo. Né spingere gli spettatori a tirar subito fuori il fazzoletto, per il sempiterno omaggio nei confronti dei valori ereditati dalla tradizione, e cercare nel respiro narrativo conferito dalla colonna sonora la piena partecipazione del pubblico. Con le risposte empatiche al mondo interiore esibito dall’egemonia del romanticismo sull’illuminismo. Del rigore sulla ridondanza. Dei palpiti sussurrati sugli accenti sbraitanti. Del conservatorismo sulla desacralizzazione del mito di John Wayne. Persuaso che i film intellettuali in cui gli autori si davano arie da sommi artisti fossero roba per fanatici. Per inguaribili introversi. Che a parer suo sfioravano la demenza sciupando la giovinezza nel buio della sala cinematografica ad analizzare la componente simbolica di scritture per immagini colpevoli di dare agli spettatori l’errata impressione di creare qualcosa attraverso la comprensione del linguaggio colmo d’infinite metafore. Incastonate nei grandangoli, negli scavalcamenti di campo, nella valenza aforistica dei raccordi di montaggio, nelle correnti alternative. L’indissolubile legame tra habitat ed esseri umani di Clint Eastwood richiama alla mente in effetti qualcosa del vitalismo coraggioso, delle sfumature meste, dell’autoironia, della fierezza di John Wayne. Detto Duke. Ma il vecchio, indomabile, cantore della Settima arte, nonostante l’ammirazione per il superfalco identificato nell’eroe dai modi perentori e dalle pieghe malinconiche, approfondisce quel retroterra psicologico ritenuto superfluo. Antepone il dubbio alla granitica certezza. Alla mancanza di mistero. Che invece costituisce il motore della poesia. Raggiunta dal compianto Duke mettendo il volto da condottiero temerario col sorriso beffardo al servizio dei franchi tiratori della fabbrica dei sogni. Tipo John Ford. Che non si domandava cosa facesse ricorrendo alla necessità espressiva dei campi lunghi, all’intensità dei primi piani, alle traiettorie registiche tese ad accrescere lo spessore dell’architettura narrativa: lo faceva e basta.

Clint, al contrario, se lo domanda. Non vive di luce riflessa. Il morbido carrello da sinistra a destra mostra la stanza dei ricordi. Con le fotografie appese alle pareti. Il richiamo all’elegia sentimentale, selvaggia, visionaria ed erudita di Sergio Leone in C’era una volta in America, che trasfigurò nel quartiere ebraico della Grande Mela degli anni Venti i ricordi di scugnizzo trasteverino, è corretto dalla fragranza di vita degli elementi ambientali. Impreziosito dallo zoom in avanti sul fermo immagine del ranchero all’epoca dell’età verde. Mentre doma un puledro bizzoso. Le virtù rilevate dal previo Il corriere – The mule, riuscendo ad appaiare il connubio tra alchimia e ironia all’ampio margine d’enigma palesato palmo a palmo insieme all’ammirevole senso della misura nel delineare il ricongiungimento in punto di morte di una coppia divisa dalla congerie passata d’incomunicabilità muliebre ed egoismi maschili, sono in parte disattese. Solo ed esclusivamente per chi si aspetta una soluzione di continuità. Il sottotesto, quantunque lungi dal concedere banalità, costeggia i timbri sobri dell’antiretorica, la cornice rurale del Texas, l’alternanza d’interni rivelatori ed esterni carichi di significato in modo piuttosto convenzionale. Il passato connesso ai suoni, perché “l’orecchio è più creativo dell’occhio” come rammentato dallo ieratico e austero Robert Bresson nei suoi capolavori, unito comunque pure ai programmatici contrappunti visivi, mai visionari, poco, quasi nulla, alle modalità esplicative dei dialoghi, non funge mai da lievito poetico. Il ritorno a casa del tredicenne Rafael “Rafo” Polk che l’anziano ranchero Michael “Mike” Milo impersonato dall’alacre Clint scorta dal Messico al Texas, per pagare il debito di gratitudine nei confronti dell’amico Howard, il padre di quel ragazzo ostile ai gringo che vuole sottrarlo alla madre dissoluta e alla terra natìa, non trae particolarmente linfa dal processo di riduzione caro ai seguaci della potenza dell’invisibile. La sceneggiatura diligentemente redatta da N. Richard Nash e Nick Schenk rende tutto piuttosto intellegibile. Ed ergo visibile. Adattando l’omonimo romanzo scritto dallo stesso Nash in merito soprattutto all’accettazione della perdita. Dello sradicamento dal contesto affettivo. Dai legami di sangue e di suolo.

Le interpolazioni apportate contribuiscono ad asciugare la trama. Spingendo Clint a dare il meglio. In quanto sono le soluzioni concepite dai registi assurti con pieno merito ad autori a fare la differenza. Il ranchero targato Cartagine, come si dice a Roma, è sempre in gamba: è vedovo; non divorziato. Non soffre del gomito del tennista e d’emicrania. Non viene calpestato e portato in ospedale. Non sembra intenzionato a rimontare in sella per rinverdire i fasti trascorsi in un rodeo ormai fuori dalla sua portata. Semplicemente Mike alias Clint intende portare a termine la missione affidatagli. Il lusso, il degrado, la metropoli, i vicoli polverosi, la camera da letto dove la licenziosa e sofferente mamma di Rafa prova a sedurlo, per piegarne la volontà, non appaiano forieri di simbologie. Non scandagliano l’alienazione frammista alle pulsioni ogettuali. Non riverberano l’istanza della visione. Non sfruttano i giochi armoniosi di compositi cromatismi. Mischiando i colori della premura, dell’ingannevole agiatezza, della miseria, della rabbia. E anche il combattimento dei galli al quale Rafa partecipa col pollastro del cuore, chiamato Macho, paga dazio a un trattamento fugace. Ad assumere i toni della sospensione dalla crudezza oggettiva, dalla prevedibilità dei brutti ceffi, del confronto dello straniero che parla a monosillabi, però in inglese, con la gente del posto, che parla spagnolo, non è neppure il viaggio. Bensì la sosta. Le strade secondarie, il panorama circostante, l’incontro, lo scontro di carattere, di vedute agli antipodi coi poliziotti corrotti in cerca di droga mettono in rassegna l’ormai vetusto tema del razzismo, dell’intolleranza, dell’ostilità per la diversità, del mix di benessere ed edonismo che minaccia la fedeltà al radicamento etico – al territorio, alle selle da pulire, alle bestie da curare, alla polvere a stelle e strisce, alla musica country – palesando alcune curiose prospettive sarcastiche. Non così originali nondimeno da tenersi in equilibrio tra derisione ed emozione, tra silenzi e risate. Tra ostilità e complicità. San Luis Potosí è un’immagine troppo fugace per acquisire lo status allegorico dello stallo esistenziale. Ma gli spazi domestici, il bar della vedova Marta, il santuario della Vergine Maria, i cavalli domati da Mike per gli indigeni, il sorriso di Rafa, rapito dalla dolcezza di un’eterea coetanea, spaginano gli stereotipi dei contesti protettivi. La devozione disinteressata, la tutela di Macho che becca i cattivi di turno, la dolce, trascinante canzone locale Sabor a mi, dall’anelito romantico, il sorriso dipinto sul volto scolpito nella roccia di Mr. Clint, meritevole dell’agognato Oscar come miglior attore, chiudono così il cerchio a Cry Macho – Ritorno a casa.

 

 

Massimiliano Serriello