Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato: Veltroni rievoca un mito della musica affezionato ai segnali discorsivi

La lancia spezzata in favore della bassa densità lessicale con l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan non deve trarre in inganno: le parole di una canzone, aliene agli arcaismi, oltre ad abbracciare la semplicità del parlato spontaneo, costituiscono materia di seria riflessione.

Ad approfondirla provvede Walter Veltroni, che, dopo il film di finzione Non c’è tempo, impreziosito a onor del vero più dallo spettacolo minore della pur ottima recitazione di Stefano Fresi e dall’emozionante colonna sonora che dalle cruciali scelte espressive in cabina di regìa, torna al documentario con Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato.

Un’opera in cui esibisce un finale simile all’epilogo del biopic Bohemian Rhapsody di Brian Singer, con la rievocazione del giorno del Live Aid, quando il gruppo rock dei Queen, capitanato da Freddie Mercury, mandò in brodo di giuggiole la folla accorsa al Wembley Stadium di Londra. Quella presente al concerto ritrovato non è invece mostrata, sulla scorta dell’erudito lavoro di sottrazione. Veltroni ne evidenzia la presenza attraverso grida di consenso e biasimo. Secondo i casi. D’altronde il regista è un cinefilo che, nel passaggio dalle teorie alla pratica, ha voluto esibire la bellezza dell’ordine naturale delle cose. Spesso date per scontate, se non lordate. Siano esse la politica, l’arte, la filosofia e, appunto, la musica.

A sorreggerlo nell’intento interviene il ricorso alla visione mitopoietica della geografia emozionale. Lo palesa l’incipit di Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato, scandito dalla voce fuori campo e dalla ripresa dall’alto che plana sulla terra dov’è sepolto un telefonino. Già: il cantautore genovese, morto a Milano ventun anni fa, era un personaggio eccentrico che organizzava i funerali ai cellulari passati a miglior vita. La correlazione tra habitat ed esseri umani accompagna l’itinerario narrativo nel ricordo di un’epoca colma di furori del cuore. A mettere a riparo Veltroni dall’iperbole provvede il senso del limite. Sinonimo d’indispensabile umiltà.

Lungi dal cadere vittima dei cerchiobottismi, soggetti a umilianti dinieghi, il politico con la passione per la fabbrica dei sogni sceglie al posto dell’ormai inflazionato tempo perduto, ricercato dai plagiari del sabato sera, la miniera di aneddoti degli affetti della PFM (Premiata Forneria Marconi). L’attestato, divertito ed ergo antiretorico, di chi ha amato De André ed è stato riamato, sulla scorta dell’umorismo, con le prese in giro che rinsaldano l’acume reciproco, trascende la tendenza ad allargare gli spazi dell’immaginazione.

L’insolita narrativizzazione, estranea agli sfoggi stilistici, trae linfa dagli inserimenti delle foto in bianco e nero. I segni del discusso tempo, sui volti odierni dell’affabile batterista Franz Di Cioccio, dell’arguto chiatarrista Franco Mussida, dell’intelligente tastierista Flavio Premoli, sono acclimatati all’interno di un cinema d’atmosfera che funge da ago della bilancia. Per conciliare letizia e duolo. Shakespeare docet.

A lungo andare, però, il punto di convergenza tra reminiscenze goliardiche ed elementi figurativi di presa immediata sarebbe divenuto preda della monotonia, trascinando gli spettatori dapprincipio divertiti in una noia di piombo, se nella seconda parte Veltroni non avesse levato, come si suol dire, la sete con il prosciutto agli appassionati.

Il lavoro di sottrazione cede pertanto spazio ad alcune modalità esplicative ricche d’estro. Con i brani entrati nel mito introdotti sullo schermo in forma di versi spiccioli. Sfottitori nei riguardi dei tipi bassetti col cuore troppo vicino al lato b. Unici al mondo nel riuscire ad appaiare segnali discorsivi ed empiti esistenziali che lasciano il segno. Inchiodando finanche l’attenzione degli inevitabili brontoloni.

Gran parte del merito va dato alle immagini catturate allora da Piero Frattari nella penombra, con una camera incapace di scrivere tramite la luce ma capace di restare alla storia. Le battute conclusive conciliano schiettezza e ricercatezza. Anteponendo al culto dei defunti e all’ottuso fanatismo dei collezionisti, avvezzi al ridicolo involontario, la bellezza di una risata. Che chiude il cerchio come Amici miei. Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato, nel rendere omaggio alle prove del tour e al momento della verità, è, infatti, una storia d’amicizia. Aliena alle pose dei poveri di spirito.

 

 

Massimiliano Serriello