La Gomera – L’isola dei fischi: Porumboiu e la lezione di C’era una volta in America

Il cerchiobottismo al cinema non è sempre sinonimo d’inane furbizia. La Gomera – L’isola dei fischi, per esempio, evidenzia con l’affascinante ed eterogeneo impianto tecnico-strutturale l’intraprendente tenuta stilistica del regista rumeno Corneliu Porumboiu, che, eletto ad autore grazie al dramedy A Est di Bucarest, sembrava aver smarrito la rotta.

A differenza, invece, dei film precedenti, dal vanaglorioso apologo sportivo The second game (Al doilea joc) alla stralunata e algida commedia The treasure (Comoara), La Gomera – L’isola dei fischi offre uno spettacolo al contempo divertente ed erudito. Che il redivivo Porumboiu sa imbastire tenendo conto sia della lezione di Sergio Leone in C’era una volta in America, sia dell’antiretorica d’ascendenza bressoniana. Non solo una cosa non esclude l’altra, senza dover compiere superflue nonché ridicole acrobazie espressive sul crinale dell’arduo sincretismo tra stilemi ricercati ed elementi di presa immediata, ma dispone pure i motivi d’inquietudine, convertiti in emblematici semitoni sull’esempio di Francis Ford Coppola nel cult La conversazione, insieme ad aguzzi segni d’ammicco.

Sfruttare adeguatamente le occasioni offerte dal denso copione è compito proprio dello spassoso ed empatico linguaggio dei fischi, che lo sbirro corrotto Cristi interpretato da Vlad Ivanov apprende nell’isola del titolo su sprone dell’avvenente femme fatale. All’accattivante incipit in chiave panteistica, che amalgama subito gli stilemi del cinema d’atmosfera, caro ad Alfred Hitchcock, ai tratti distintivi della geografia emozionale, fa seguito il carattere precipuo dei mistery. La rivoluzione della consecutio temporum, che preserva il prosieguo dalle soluzioni convenzionali ad appannaggio del vano rispetto cronachistico, gode d’un’inventiva assai rara. Specie se rapportata al contesto gremito di flashback decisi, attraverso l’appassionante gioco di scatole cinesi, a conferire notevole spicco al dipanarsi progressivo dell’intreccio attingendo altresì ai costrutti del puzzle caustico ed esilarante. Il lessico fischiato che eseguono gli abitanti del rifugio eruttivo vicino all’arcipelago delle Canarie si congiunge tanto al leitmotiv del portamento necessario a riprodurre al meglio l’ambìto sibilo quanto al dato antropologico ed etnologico allo stretto servizio dell’opportuna attendibilità diegetica.

L’alternanza di suoni intradiegetici ed extradiegetici va invece inaspettatamente di pari passo col mix d’interni ed esterni capaci di trascendere gli onesti limiti della solidità artigiana. La fenice dell’arte vera impreziosisce infatti La Gomera – L’isola dei fischi, con il climax seguito col cuore stretto anche dagli spettatori meno ingenui. Grazie ai sorrisi dispensati sulla scorta della divertente forma alternativa di comunicazione dovuta alla necessità di condurre in porto il doppio gioco. Che diviene persino quadruplo allorché il crescendo del racconto ricava ulteriore linfa dall’innesto di brani musicali molto diversi, come La marcia di Radetzky composta da Johann Strauss e The passenger di Iggy Pop. Gli affondi amari attinti ai thriller sensazionalisti e il richiamo agli apologhi in sordina sul riscatto morale di Aki Kaurismäki, riletti con ben altro ingegno rispetto alle scelte sobrie ed essenziali predisposte in The treasure per congiungere l’esplicita bizzarria all’intrinseco decoro, cedono il passo sul finale ad alcuni riempitivi aggiuntivi piuttosto imprevedibili.

Sebbene affiori qua e là l’impasse di mettere troppa carne al fuoco, alla medesima stregua dell’involuto Tony Gilroy nell’ipetrofico giallo Duplicity, l’avvenente Catrinel Menghia nel ruolo della caparbia dark lady, che fa l’amore con Cristi fingendosi una prostituta d’alto bordo per non insospettire le spie in perenne agguato, riesce ad appaiare la seducente bellezza all’assoluta efficacia d’una recitazione di gran classe. La programmatica giustapposizione dell’ancestrale sentimento d’angoscia, acuito dalle attese spossanti in quel di Bucarest per la prospettiva di agguantare i milioni nascosti da un manigoldo prossimo a uscire di prigione, è sopperita dalla destrezza di connettere, grazie al dinamico montaggio, le pause contemplative agli scoppi improvvisi di violenza. La natura poetica delle inquadrature di profilo, al termine del febbricitante trambusto anticipato dal rimando posmoderno ai capolavori sul bisogno d’imporsi con il capo in gonnella di Christie che decide di vedere in solitudine nel buio della sala l’inobliabile Sentieri selvaggi di John Ford, chiude il cerchio. In tal modo La Gomera – L’isola dei fischi spinge con l’epilogo da musical la platea a battere le mani al ritmo di una storia nervosa ed eccentrica, tenera ed enigmatica, buffa ed estrosa.

 

 

Massimiliano Serriello