Lasciali parlare: Meryl Streep per l’antiaccademico Soderbergh

Anche i film destinati a uscire sulle piattaforme, con buona pace degli schietti sostenitori del mercato primario di sbocco della Settima arte, possono riservare gradite sorprese.

Lo dimostra l’approdo in streaming – su Apple Tv app, Amazon Prime Video, Youtube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV, Sky Primafila e Mediaset Play Infinity – dell’arguto dramedy Lasciali parlare.

Dramedy che non si limita a fornire l’ennesima prova del mestiere dell’eclettico regista statunitense Steven Soderbergh, sempre attento alla pittura dei caratteri colti dal vivo; bensì ne certifica l’inesauribile piglio sperimentale. Lungi dal perdere colpi a oltre trenta primavere di distanza dall’esordio con Sesso, bugie & videotape. In grado di giustapporre alle ossessioni voyeuristiche, in voga negli anni Ottanta, i timbri profondi ed elegiaci d’origine bergmaniana. La coralità interpretativa torna così ad arricchire lo stile antiaccademico, l’ampio spazio lasciato all’improvvisazione, l’egemonia del carattere d’autenticità su quello invece generico delle arcinote commedie sofisticate insieme alla forza significante degli astuti congegni metalinguistici. Alla scrittrice di fama Alice Hughes, incarnata dalla talentuosa ed esperta Meryl Streep, si vanno ad appaiare personaggi a tutto tondo. Intenti ad anteporre alle pieghe programmatiche delle mere figure di fianco l’opportuno spessore introspettivo. Sotto il segno della sorprendente naturalezza agevolata dalla sagace direzione di Sodebergh. Artefice pure in prima persona delle composite soluzioni luministiche della fotografia e dei compenetranti piani di reazione conseguiti dal poliedrico montaggio alternato. L’uso della piccola cinepresa digitale Red Camera, che ha permesso a Peter Jackson di mettere a punto la propria efficiente tecnica di ripresa, infondendo al kolossal d’avventura Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato una compiutissima dinamica cromatica capace di convertire i prevedibili coefficienti spettacolari in sorprendenti rilievi pittorici e intimisti, diviene l’assoluto valore aggiunto.

Per moltiplicare gli ambienti e scorgere negli spazi al chiuso, a bordo dell’immenso transatlantico scelto per sopperire alla paura del volo in aereo, l’insicurezza affettiva sul terreno ora della doppiezza ora dell’ingenuità d’animo. L’indole accerchiatrice di Alice, convinta dall’ambiziosa agente Karen ad attraversare l’oceano con il RMS Queen Mary 2 per prendere l’ambìto Premio Footling nella perfida Albione, a patto di portarsi appresso le amiche del cuore e l’affettuoso nipote Tyler, finisce per cedere spesso la ribalta ad alcuni curiosi siparietti. Che ospitano sentimenti d’invidia, teneri palpiti, calcoli professionali, aperte confessioni e finzioni malcelate. La felicità espressiva, esibita alternando l’immancabile verbosità, frutto per molti versi dell’azzeccata improvvisazione, ai momenti di eloquente silenzio con una giustezza di accenti e sfumature che non sarebbe dispiaciuta a Robert Altman ed Ettore Scola, compensa le battute d’arresto dovute agli interludi farseschi tirati via alla bell’e meglio. Mentre l’inane gioco formale dei narcisistici confronti, eletti ad antidoti contro l’atroce immersione nella solitudine, desta parecchie perplessità in chi privilegia l’intuito ironico che corregge i soprassalti d’angoscia e l’inventario di manie, il fruttuoso contenuto umano rinsangua l’assunto narrativo. Allo spettacolo torvo, volto ad appesantire i pietosi patimenti sparsi qua e là preferendo al dolore della coscienza l’egoistico spirito di rivalsa, rimedia per fortuna l’intelligente leggerezza capace d’introdurre sacrosanti colpi di spillo al predominio della vanità ed esitazioni cariche di senso.

La curvatura dell’immagine, l’alacre lunghezza focale, garantita dall’abile apertura dell’idoneo diaframma, il ghiribizzo del deep focus, con l’attempata Roberta a caccia di corteggiatori facoltosi nell’emblematica festa in maschera, riflettono l’equo desiderio di vederci chiaro. La mutevolezza degli umori ricava però linfa da quei tentennamenti, da quelle titubanze, da quegli indugi che danno nerbo ai semitoni. Rimediando alle deleterie componenti manieristiche grazie all’apporto dei perspicaci cambi di prospettiva, dell’ingannevole buio, nel planetario in omaggio a Manhattan di Woody Allen, dei rapporti tra i sessi soggetti al mesto rovescio della medaglia. Le pennellate rapide, di tanto in tanto persino frettolose, acquistano in tal modo la vigoria analitica dei ritrattisti muniti di polso ed estro. Sodebergh ricama quindi attorno alla coroncina dei sorrisi di rito, dei moti di disapprovazione, delle varie strizzatine d’occhio alle incisive linee degli antesignani un’originale intelaiatura malincomica. Che perde d’efficacia quando le nubi minacciose compaiono all’orizzonte, annunciando da copione foschi presagi, e recupera con gli interessi tracciando un’ombra di tenerezza. Aliena all’enfasi di circostanza. In mezzo all’universo muliebre contraddistinto da prime donne in vena smagliante, agli ordini della sempiterna Streep, la palma del migliore va assegnata all’ormai ex enfant prodige Lucas Hedges (Tyler). Lasciali parlare beneficia dell’implicita tavolozza dei colori connessi all’adombramento dell’entusiasmo giovanile. Riscattato dall’ordine naturale delle cose, dalla sana facoltà di esprimersi, in barba all’alienazione, dall’autentico diletto del convivio ricreativo e dal toccante bagliore dei sogni catartici.

 

 

Massimiliano Serriello