Mio fratello, mia sorella: un mix di strategia ed empatia targato Netflix

Il sensibile regista romano Roberto Capucci – arruolato da Lotus Production per dirigere l’ambizioso mélo familiare Mio fratello, mia sorella distribuito sulla piattaforma Netflix a partire dall’8 Ottobre 2021 – alza decisamente l’asticella rispetto al film d’esordio Ovunque tu sarai.

Inno alla complicità dell’amicizia, cementata dall’amore per la squadra del cuore, troppo debitore degli stilemi dei road movie, ormai spremuti sino all’osso, per andare oltre i limitanti colpi di gomito. L’obiettivo di affinare la propria cifra stilistica rivolgendosi, anziché al mercato primario, a quello, si fa per dire, secondario, considerando le risorse a disposizione di Netflix, funge da pungolo per prendere al laccio un’ampia fascia di pubblico o per diventare un autore coi fiocchi capace d’impreziosire il rapporto tra immagine e immaginazione grazie al personalissimo punto vista sull’argomento trattato?

Senz’alcun dubbio, sia l’esperienza professionale maturata nell’ambito degli scaltri video musicali e dei suggestivi spot pubblicitari, sia la genuina propensione alla forza trascinante delle canzoni, al punto da comporne due per chiudere il cerchio nel migliore dei modi, fanno la spia ad alcune scelte degne d’approfondimento. Sin dall’incipit appare chiaro che Capucci perda sul versante della commedia all’italiana, in grado da oltre sessant’anni di spingere gli spettatori a ridere amaramente e a riflettere ironicamente, quanto acquista sotto l’aspetto dell’intelaiatura drammatica. Ci ha guadagnato in intensità ed efficacia col mutamento di segno? Ogni testa è un tribunale. Ma, al di là dell’imprecisione di qualsivoglia impressionismo soggettivo, seguire la maniera del racconto morale comporta il rischio di cadere nell’infecondo surrogato del moralismo se non addirittura nell’enfasi strappalacrime ad appannaggio delle soap opere. Che con l’ingegno degli avvertiti ed eruditi ritrattisti introspettivi non hanno nulla a che vedere. Per non pagare dazio all’ampollosità, ed ergo alla falsa facondia contenutistica di chi fa molto rumore per nulla (Shakespeare docet), occorre saper congiungere il respiro narrativo garantito dalla musica all’opportuna secchezza del ritmo. Riuscendo quindi ad amalgamare accenti e semitoni. La trama – frutto dell’attento plot buttato giù a quattro mani con l’abile Paola Mannini traendo linfa altresì dagli affreschi psicologici d’oltreoceano, capaci di toccare da vicino tematiche urgenti, tipo la sofferenza degli individui colpiti nel fisico e nella mente, preservando, al medesimo tempo, i principi dell’intrattenimento avvezzi ad anteporre il brio nella pittura dei caratteri alla noia di piombo degli interrogativi cruciali – non va sicuramente a caccia di grilli.

La scrittura per immagini che costeggia il ritorno all’ovile del ribelle Nick, in occasione dei funerali dello scomodo padre professore, colpevole di contemplare lo spazio con accademica improntitudine e gli affetti intimi sulla scorta di una malcelata doppiezza, sa, viceversa, un po’ di predicatorio. Riverberando il nucleo centrale del racconto nei movimenti di macchina, intenzionati a travalicare i limiti del cinema da camera, negli appositi contrasti chiaroscurali, con le zone d’ombra e luce in bell’evidenza, nel montaggio alternato. Che esibisce l’intima coalescenza del cinquantenne Nick mentre pratica il jogging e dell’afflitto nipote Sebastiano. Vittima ad appena vent’anni dell’atroce schizofrenia. L’affinità elettiva costituita dall’educazione alla musica classica rimanda a Cinque pezzi facili di Bob Rafelson. Con Jack Nicholson nei mesti panni dell’irrequieto figlio di papà che cerca di sbaraccare il background borghese per poi porgere il fianco tanto nello sradicamento dei vincoli di sangue quanto nell’innaturale acclimatazione nei contesti proletari. Tuttavia, al contrario degli alfieri del New American Cinema, estranei alle lagne, Capucci rifugge dall’audace principio di casualità. Dalla spontaneità di tratto. Dallo stile quasi frantumato ed ellittico che provoca la partecipazione emotiva delle platee dal palato fine andando in profondità. Invece di fermarsi in superficie. L’ostilità iniziale della risentita sorella Tesla, costretta a dividere la casa con Nick per rispettare le ultime volontà del genitore bisognoso di riscatto etico, la scoperta dell’alterità, costituita dalla malattia, l’effigie degli spazi privati, l’esplicativa interazione tra terra e cielo, con l’universo contemplato da Sebastiano come illusoria ma tenera via di fuga, passano attraverso un’analisi comportamentistica attendibile.

Nondimeno l’interazione tra interni ed esterni e tra musica diegetica ed extradiegetica finisce per privilegiare rispetto all’idoneo acume delle dinamiche interiori i colpi di gomito dell’esteriorità. Per cui i brividi suscitati da qualche apprezzabile cortocircuito poetico, che dà la precedenza alle note di pianoforte e al suono del violoncello padroneggiati in famiglia, superando le schermaglie dialettiche, il fiele dell’acredine, le questioni rimaste irrisolte, i nodi che ancora devono venire al pettine, cedono la ribalta al mix di estri formali ed espedienti commerciali. Ravvisabili nel rosario di scene madri, una costante nella seconda parte, negli zoom in avanti, nell’eccesiva confluenza, grondante retorica, d’incursione turistica, con lo sport acquatico praticato da Nick sullo sfondo seppure in chiave distensiva se non cool, ed empiti ora di stizza ora d’affetto, nella deleteria egemonia dei timbri sbrigativi nascosti ad arte dalle note in teoria trascinanti. All’atto pratico i morbidi ed empatici accordi di pianoforte, l’epidermica prova dell’esordiente Francesco Cavallo nel difficile ruolo di Sebastiano, l’intesa attoriale dell’istrionico Alessandro Preziosi (Nick) con la sottorecitazione dell’alacre Claudia Pandolfi (Tesla) fanno spesso posto ad artifici che trascinano la vicenda nell’irrealtà dei melensi ammicchi. E non nell’applauso per lo studio portato avanti con il supporto ex ante della SIP (Società Italiana Psichiatria). Mio fratello, mia sorella in itinere, sul set, trae linfa dall’empatia raggiunta dall’intero cast. Ed ex post, alla prova del nove, trabocca stucchevolezza da tutti i pori. In nome della catartica riappacificazione. Gravida di punti esclamativi. E povera di sapienza analitica ed estro genuino.

 

 

Massimiliano Serriello