Perfect days: Wim Wenders tra rigore ed emozione

Deus ex machina del virtuoso ed emblematico rapporto tra cinema e territorio, che snuda in ogni sua toccante opera d’introspezione l’altalena degli stati d’animo connessa alla geografia emozionale, l’inesauribile regista tedesco Wim Wenders tira fuori dal cilindro con Perfect days un fulgido inno al decoro, impreziosito dal senso profondo della cosiddetta diuturnitas, in grado di catturare appieno l’intima anima del Sol Levante.

La vicenda, infatti, imperniata sulla ripetizione costante lungo l’intero arco narrativo d’una condotta di vita spartana e umanissima, riverbera l’ascendente esercitato dall’habitat nel solco della tradizione.

Il desiderio di condurre gli spettatori in un’atmosfera a primo acchito spoglia ed essenziale ma a lungo andare carica di fecondi richiami all’estetica dei tempi morti in voga nei cult movie nipponici dello scorso secolo (specie in quelli di Yasujirô Ozu) risulta un valido pungolo per approfondire l’evocativo stream of cosciousness del Giappone e ancor più dell’introverso protagonista, Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Lasciandosi dietro le spalle la velleità di riuscire ad amalgamare nei densi documentari l’ardua combinazione di crudezza oggettiva ed echi favolistici, l’ispirato maestro crucco rispolvera adesso l’estro speso al meglio negli applauditi capolavori del passato. Da Paris, Texas a Il cielo sopra Berlino. Da Lisbon story a Palermo shooting. Il presente è scandito dai facondi silenzi, cari sia a Jacques Tati sia ad Aki Kaurismäki, e dall’efficace resa degli effetti malincomici. Congiunti, con una cura certosina dei particolari, alla forza significante della musica intradiegetica.

L’amore per le cassette vintage, l’appeal sempiterno degli intramontabili brani (di Patti Smith, Lou Ridding, Otis Redding in pole position), l’effigie tenera ed eccentrica del vetusto mangianastri, la routine giornaliera riposta ora nelle piante da annaffiare ora nelle dotte letture (svelte ad appaiare usanze agli antipodi), il modesto impiego, visto dai cinici occidentali come l’ultimo gradino della scala sociale, svolto, invece, con scrupolo e dignità, i consueti attimi di ristoro, largamente meritati, conferiscono all’innesto dell’aura contemplativa una spontaneità di tratto che non sa mai di vacuo poeticismo. Merito dell’uso intelligente della camera a mano, di determinate inquadrature, sghembe ed empatiche, dell’arguta successione di sequenze che lì per lì sembrano uguali l’una all’altra. Contrassegnate in realtà dalla sottigliezza dei modi stringati e, palmo a palmo, rivelatori. A suonare formalistico è al contrario il pleonastico ed eccessivo ricorso ad alcuni tagli di luce inclini a mettere in mostra la consolazione offerta dall’ordine naturale delle cose.

Mentre l’immagine in penombra degli indecifrabili sogni, legati a filo doppio con l’arcano parzialmente svelato dai match cut visivi, palesa lo sforzo di chiarire, quantomeno in minima parte, l’indefinitezza onirica in merito al condizionamento ambientale e familiare. Incapace di tenere davvero in apprensione il pubblico ostile alle insistenze degli apologhi ascetici. L’affascinante alone di mistero però permane sino alla fine. Accompagnato dalla carezzevole affabilità dei vari hit. Sostituiti in zona Cesarini dalla sana leggerezza emanata dal ritorno alla fanciullezza. Con le ombre sull’asfalto, di solito inquietanti o colme d’intrinseca mestizia, divenuto oggetto di svago spensierato ed esercizio di catartica fantasia. Kôy Yakusho merita una lode incondizionata per aver aderito con l’opportuna esattezza di semitoni allo zelo, ai mutismi, alle sottili interpolazioni dell’onesto ed energico Hirayama. Il cui compiuto e versatile gioco fisionomico, chiudendo i battenti, dà ulteriore nerbo all’epilogo di Perfect days. Dinanzi alla certezza delle abitudini elette al rango di riti liturgici, forse per sfuggire pure allo spettro dell’alienazione, il sorriso conclusivo è la replica ideale. Perché comunica meglio dei pedanti simbolismi e di tanti bla bla pseudo intellettuali.

 

 

Massimiliano Serriello