Phobia: il thriller hitchcockiano con Jenny De Nucci

Phobia è un thriller hitchcockiano che segna l’esordio alla direzione di un lungometraggio per Antonio Abbate (nel 2020 aveva diretto il corto Sottosuolo), il quale dimostra senz’altro di sapere il fatto suo e di muoversi con estrema agilità nei territori del brivido, tra suspense e colpi di scena che condurranno alla shockante rivelazione finale.

Un thriller psicologico, una sorta di Alta tensione di Alexandre Aja all’italiana, scritto e sceneggiato da Giacomo Ferraiuolo e Michele Stefanile e interpretato da un cast eterogeneo totalmente centrato, senza alcuna sbavatura o nota discordante. Il lungometraggio è distribuito da Flat Parioli, nella figura di Marco Gaudenzi, che era alle spalle anche di Antropophagus 2, The slaughter – La mattanza e Do Ut Des di Dario Germani, che qui troviamo come direttore della fotografia.

Chiara è una giovane che vive e lavora in una grande città, la quale confessa alla sua amica Michela di essere da tempo perseguitata da uno stalker. L’amica la convince ad accettare una rimpatriata nel casale di famiglia dove è cresciuta, per tornare dopo molti anni dalla madre, il padre e il fratello, che non vede da quando aveva provocato per sbaglio un incendio nella stalla. Incendio che ha minato gravemente la salute del papà. La mamma, Maria, e il fratello, Antonio, non le hanno mai perdonato di essere stata causa di quel rogo, e appena ha potuto Chiara è scappata via. Ritornata quindi a casa, viene accolta con estrema freddezza sia da Antonio che da Maria, e, svegliatasi durante la notte, si rende conto che Michela non sta più dormendo accanto a lei. Cercandola, si imbatte prima nella moglie incinta di Antonio, poi nella madre e nel fratello: tutti sostengono che è arrivata lì da sola e che Michela non è mai esistita. E in effetti le sue cose sono sparite, sul cellulare di Chiara non c’è più traccia del suo numero, delle sue chiamate, dei suoi messaggi, delle sue fotografie. Michela pare svanita nel nulla, o, forse, addirittura, non essere nemmeno mai esistita. Inizierà così l’estenuante ricerca della verità della povera Chiara, tacciata da tutti di pazzia.

Phobia è un film che innesta tutta la sua onirica struttura sui labirinti della psiche umana, sulle fobie, i sensi di colpa, la totale mancanza di scrupoli, sul labile confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è, ma anche su cosa sia il bene e cosa il male, il lecito e l’illecito. Il tutto strutturato su una forte gerarchia maschilista che vede l’uomo come il punto di riferimento dell’intero nucleo familiare e la donna il capro espiatorio da poter sacrificare. La giovane Jenny De Nucci dimostra di avere indubbie doti recitative, nonostante l’età e la carriera da influencer, che però ha sempre affiancato a quella di ballerina, scrittrice e attrice, sia in teatro che in televisione (Un passo dal cielo, Don Matteo). Nel 2021 esordisce al cinema con Ancora Più pello di Claudio Norza, e Phobia è il suo primo thriller. Col suo volto acqua e sapone e gli occhioni spauriti la De Nucci è perfetta nel ruolo di Chiara, cresciuta tra mille complessi messile addosso proprio da coloro che avrebbero dovuto proteggerla, i suoi familiari. In casa non è a suo agio, è un cucciolo smarrito, sembra quasi più tranquilla l’amica Michela, interpretata dall’affascinante Beatrice Schiaffino, protagonista femminile del citato revenge movie Do Ut Des.

La fotografia è un po’ oscura, un po’ fiabesca e misteriosa al tempo stesso, che ci porta nel limbo in cui è sospesa Chiara, in un sogno ad occhi aperti o un incubo prolungatosi troppo. Altro personaggio emblematico di questa opera prima è quello di Maria, madre di Antonio e Chiara, donna apparentemente fredda e scontrosa, gelosa del figlio, che tiene sulle spalle tutto il peso della famiglia e del marito in coma: ad interpretarla è l’attrice romana Francesca Romana De Martini, un diploma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e una lunga carriera sia sul palco che davanti alla macchina da presa, diretta da nomi del calibro di Bernardo Bertolucci, Michele Placido e Pupi Avati, giusto per citarne qualcuno. Perfetta nel ruolo, algida, austera, riesce comunque a far emergere il suo dolore e i suoi sentimenti , spesso contrastanti. Altro tassello femminile di questa intricata vicenda familiare, costellata di segreti e misteri, è rappresentato da Sara, la moglie incinta di Antonio, che incarna il lato “più umano” di questo ammasso di gente rancorosa. Ad incarnarla l’attrice romana Federica De Benedittis, anch’essa uscita dalle scuderie della Silvio d’Amico, così come il siciliano Eugenio Papalia che impersona Antonio, il suo torbido marito, a tratti il personaggio più spaventoso e oscuro, privo di scrupoli e, probabilmente, anche di sentimenti che si possano definire umani.

Infine si segnalano nel cast gli attori Federico Tocci (La squadra, Suburra) e Antonio Catania (Boris), rispettivamente nei ruoli, subalterni ma cruciali, di un allevatore e di Pietro, padre di Chiara. Ha delle atmosfere quasi avatiane Phobia: l’idea della riunione di famiglia dopo tanto tempo, il casolare rurale sperduto nelle campagne, i personaggi che nascondono oscuri segreti. Il risentimento serpeggia ovunque, ma nello specifico non si capisce subito il perché. Una cappa asfittica, opprimente, avvolge tutto e tutti. I personaggi non sono tutti tratteggiati allo stesso modo a livello psicologico, alcuni restano un po’ più sospesi, ma il lavoro svolto anche nella loro caratterizzazione denota una grande cura e la ricerca di una credibilità che in una storia del genere potrebbe spesso latitare. Il ritmo è lento, ma le trovate sono ben congegnate, la tensione striscia sempre un po’ ovunque, e ciò permette allo spettatore di non perdere mai l’interesse allo svolgimento della vicenda. Ma, oltre che ad Avati, Abbate, come sopra accennato, strizza senz’altro l’occhio anche a Hitchcock e alle sue cospirazioni, fatte di persone che sanno ma non parlano, di conti che non tornano, di indizi che si scoprono pian piano, portando verso la verità, o alla presunta tale.

E, ovviamente, come si diceva più su, non è estranea a questa sceneggiatura nemmeno l’accoppiata Dean Koontz/Alexandre Aja, che in Intensity prima (1995) e Alta tensione poi (2003) ha giocato sugli scherzi della mente di una ragazza e sul labile confine tra la realtà e ciò che lei pensa invece di star vivendo. Il finale è abbastanza intuibile, ma niente affatto scontato, e ci riserva al suo interno svariate piccole sorprese che, probabilmente, nessuno può prevedere. I personaggi, così come gli eventi, si svelano lentamente, senza fretta, dandoci modo di provare a fare le nostre deduzioni, proprio come accade quando si legge un libro giallo particolarmente avvincente. Il dubbio regna sovrano ed è su esso che dovrebbe costruirsi ogni buon thriller che si rispetti. Abbate, supportato anche dalla oscura e minacciosa location e dalle solide prove del cast, riesce a farci dubitare di tutto e tutti, da Chiara (sarà pazza oppure no?) a Michela (esiste o è solo un’amica immaginaria di Chiara?), dalla famiglia della giovane (la madre e il fratello saranno coinvolti in qualche modo nella sparizione di Michela o completamente innocenti? La moglie di Antonio è veramente così ingenua come sembra?) all’allevatore che gira col pick-up pieno di pecore morte (sarà un assassino, ci sarà da aver paura di lui?).

Tutto il film è pervaso da un’atmosfera di costante incertezza, da un senso di spaesamento collettivo, che per forza finisce per coinvolgere lo stesso spettatore, il quale si lascia trasportare in questo siparietto di ombre cinesi dove le visioni sono ora più a fuoco, ora più eteree, effimere. E anche l’ultimissima scena, quella che segna l’inizio dei titoli di coda, si allinea perfettamente a tutta l’ambiguità che è protagonista indiscussa dell’operazione. Antonio Abbate esordisce così in modo assolutamente consapevole, consegnandoci un thriller psicologico di ottima fattura, con pochissime sbavature – date probabilmente solo dai limiti produttivi – che presenta un taglio di tipo internazionale e non teme il confronto con pellicole dello stesso tipo firmate da nomi più “esperti” come, per esempio, Donato Carrisi e Stefano Lodovichi. E che abbia le idee chiare il nostro Antonio lo dimostra proprio in una dichiarazione in cui parla della genesi della sua opera prima: “Nonostante i modelli di riferimento di Phobia siano quelli di un cinema thriller di qualche decennio fa, l’obiettivo del film è declinare il genere attraverso una tematica molto attuale e discussa come quella della salute mentale. Un altro proposito importante era evitare l’archetipo cinematografico della ‘scream queen’ o, più in generale, della donna che deve essere salvata, per rifarsi invece a modelli più moderni e tridimensionali”. Cosa si può aggiungere di più?

 

 

Ilaria Monfardini