Waiting for the barbarians: Ciro Guerra predica la pace con Johnny Depp e Robert Pattinson

In teoria Waiting for the barbarians ha gli ingredienti per accontentare ogni tipo di pubblico. Dagli spettatori dai gusti semplici che s’identificano nello spettacolo della recitazione, eleggendo gli interpreti a modelli da emulare, alle platee più scaltrite. Intente a seguire passo dopo passo il percorso stilistico ed espressivo dei registi ritenuti autori tout court.

All’atto pratico, invece, il film – nel dare un colpo al cerchio della capacità di presa immediata e l’altro alla botte dell’altera ricercatezza dell’aura contemplativa orientata al rapporto tra habitat selvaggi ed esseri umani sedotti dall’illusione dell’avventura – cade all’indietro buttandosi in avanti. Nell’inane tentativo di raccogliere unanimi consensi.

Ciro Guerra, in cabina di regìa, sembra già aver smarrito il fulgido carattere d’ingegno creativo esibito in El abrazo de la serpiente traendo partito dal pathos solenne ed esoterico del Maestro brasiliano Glauber Rocha. L’ausilio della psicotecnica recitativa dei divi di celluloide Johhny Depp, nel ruolo dell’arcigno colonnello Joll deciso a reprimere le presunte orde barbariche, e Robert Pattinson, nei panni dello spietato braccio destro, al di là dell’esito commerciale di Waiting for the barbarians non tocca vette significative. L’immagine dell’avamposto da difendere dai nomadi indesiderati, senza l’apporto d’estro ed empatia degli scenari mitopoietici, in cui il superamento degli ostacoli determinati ora da Madre Natura ora dai soliti individui ostili a qualsivoglia spirito errante raggiunge il diapason dell’emozione, rimane in superficie. L’attesa del nemico da rimandare a casa con le pive nel sacco manca dell’ossatura ritmica capace di tenere il pubblico col fiato sospeso ed ergo destare curiosità sul prosieguo degli eventi. Memore del previo Oro verde – C’era una volta in Colombia, girato in tandem con l’ex moglie Cristina Gallego, Ciro Guerra cerca di conciliare le tensioni psicologiche degli apologhi intellettuali e i timbri postmoderni cari a Quentin Tarantino.

L’osservazione fenomenologica s’incrocia allora con l’impasse dei compiaciuti colpi di gomito. L’assenza di una varietà d’invenzioni necessarie ad amalgamare gli stilemi agli antipodi, assicurando il posto che gli spetta alle parabole metaforiche in grado di rendere la location un personaggio vero e proprio, impedisce la piena partecipazione di una platea eterogenea. Attratta dall’ampio respiro congiunto alla pregnanza significante dei campi lunghi, sulla falsariga di Lawrence d’Arabia, e dall’impianto introspettivo ad appannaggio dell’erudito cinema d’atmosfera. Il clima d’incertezza e d’imperterrita minaccia, con la violenza dei militari che inorridisce l’affabile magistrato locale affascinato dagli scavi archeologici, risente invece delle tinte sinistre apposte agli arcinoti contesti dal sapore western. L’ovvio rimando a Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini evapora in una coroncina di timbri antropologici ed etnologici dispiegati alla bell’e meglio. Il mancato approfondimento dell’ingannevole ideale del dominio con le armi in pugno pregiudica l’intenzione di scorgere dietro l’apoteosi dei vincoli di suolo un quadro d’inganni funesti di straziante intensità.

Il divertimento procurato dalle prove attoriali stenta ad aggiungere alle risapute dinamiche interiori ed esteriori sfumature degne di rilievo. Gli accenti belluini, frammisti ad alcuni enfatici pietismi che sanciscono l’involuzione di Ciro Guerra come autore avvezzo in precedenza alla vigoria lirica e allegorica, estranea di per sé ai cascami ampollosi, hanno dunque le polveri bagnate. L’esplicito pistolotto edificante, anziché aprire il varco alla coscienza svelando gli intrighi di potere e l’afflato morale ed esistenziale custodito dall’identità specifica del teatro degli scontri, non cava un ragno dal buco. Lo sguardo verso l’orizzonte persuade assai meno rispetto all’uso dei primi piani. Il volto dell’eterea martire cieca, coi morbidi tratti orientali di Gana Bayarsaikhan, pur apparendo maggiormente appropriato, per innescare la molla del rigetto dinanzi ai soprusi compiuti in nome del senso d’appartenenza, mantiene inalterati i dubbi sull’inattesa egemonia della ridondanza sul montaggio irregolare dei cuori di tenebra. Da Apocalypse now di Francis Ford Coppola ad Addio al re di John Milius il simbolismo febbricitante ed evocativo, caro a Glauber Rocha, aveva trovato una valevole soluzione di continuità. Waiting for the barbarians, sancendone la definitiva battuta d’arresto, certifica pure il logoramento, col trascorrere degli anni, del copia e incolla.

 

 

Massimiliano Serriello