Respect: la Aretha Franklin di Jennifer Hudson

È nella Detroit del 1952 che apre le danze Respect, primo lungometraggio cinematografico a firma della specialista del piccolo schermo Liesl Tommy.

La Detroit in cui facciamo immediatamente conoscenza con una brava bambina di colore che, dalle fattezze di una più che convincente Skye Dakota Turner, qualcuno non esita a definire una Judy Garland nera.

Una bambina che canta nel coro della chiesa di suo padre C.L. Franklin alias Forest Whitaker e che apprendiamo immediatamente essere la futura regina del soul Aretha Franklin, scomparsa nell’estate 2018.

Regina del soul che, una volta cresciuta di età, assume i connotati della Jennifer Hudson di Dreamgirls, portandoci a conoscenza del progressivo sviluppo della sua carriera artistica e del rapporto con il marito Ted White, interpretato da Marlon Wayans.

Marito che, tra l’altro, non manca di avere contrasti con il produttore musicale Rick Hall, ovvero Myk Watford; man mano che la ricca colonna sonora di vecchie hit black spazia da Lonely teardrops di Jackie Wilson alla hendrixiana Hey Joe.

Senza contare, ovviamente, i successi dell’immensa Aretha, da (You make me feel like a) Natural woman alla travolgente Think e, ovviamente, Respect.

Tra un tour europeo del 1968 e l’esibizione al Madison Square Garden di New York, nello stesso anno, fino a Chain of fools e al 1972 di Amazing Grace.

Tutti successi destinati a fare da accompagnamento ad un biopic che, oltre a raccontare l’evoluzione su palco e in studio di registrazione di una grandissima voce immortale che non ha neppure mai perso la propria fede nei confronti della chiesa, affronta in parallelo la tematica delle discriminazioni razziali e dell’impegno che la stessa Franklin ha sempre manifestato a proposito della spinosa questione.

Ma, tra arresto della militante del movimento afroamericano statunitense Angela Davis e uccisione di Martin Luther King che, però, la sceneggiatura rischia di non far apprendere allo spettatore privo di relative nozioni storiche, proprio questo lato di denuncia dell’operazione appare soltanto accennato occasionalmente e mai argomentato nella appropriata maniera approfondita, rischiando di rivelarsi quasi forzato.

E, se il finale di Respect non può fare a meno di rappresentare il suo momento maggiormente emozionante, non risulta difficile intuire che una certa piattezza narrativa generale e il poco coinvolgente resto delle oltre due ore e venti di visione siano riconducibili alla provenienza televisiva della regista.

 

 

Francesco Lomuscio