Marilyn ha gli occhi neri: Simone Godano dirige Miriam Leone e Stefano Accorsi

Dopo Croce e delizia, caratterizzato dalla tendenza ad amalgamare lo scandaglio d’ispirazione bergmaniana con l’attitudine a convertire l’amarezza dell’apologo sui nuclei familiari opposti, per indole ed estrazione, nell’amabilità dell’ironia tollerante, aliena ai colpi di spillo della satira di buccia dura, il regista capitolino Simone Godano batte sullo stesso tasto.

Anche la sua ultima fatica, Marilyn ha gli occhi neri, palesa, infatti, l’ambizione di trarre partito per un verso dalla tecnica di straniamento del cinema nordico, rinvigorito dall’audace ed eccentrico manifesto Dogma 95 senza mai compatire i personaggi colpiti nel fisico e nella mente (basta pensare a Idioti di Lars von Trier), ed esprime per l’altro l’assoluto bisogno, invece, di empatia attraverso il valore terapeutico dell’umorismo.

Innalzato al rango della forza immaginifica. Ad appannaggio di alacri ed estrosi colleghi in possesso della virtù d’impreziosire le anguste prospettive legate alla contemplazione del reale, che rifugge dai voli pindarici, con alcuni cortocircuiti poetici carichi di significato ed emozionante speranza. Tuttavia Godano, nonostante l’apprezzabile destrezza impiegata ad appaiare echi e controechi, per acquisire la verve dei dramedy cosmopoliti, estranei alla barba dei pistolotti edificanti, concede troppo all’enfasi improntata al finto buonismo. Che garantisce il sostegno economico concesso dal MIBACT ai film d’impegno civile ritenuti d’interesse culturale. A dispetto di opere, come Red Land – Rosso d’Istria di Maximiliano Hernando Bruno, ree di esibire l’empio trattamento riservato dai fautori dell’ipocrita livellamento ugualitario agli italiani restii a rinnegare i vincoli di suolo. Al punto da finirci ingoiati. In Marilyn ha gli occhi neri, viceversa, lo spunto di partenza, anziché la necessità di revisionare l’abbattuto e scoraggiante passato lontano dalle menzognere discipline di fazione, riguarda il brillante e incoraggiante presente. Col ristorante londinese gestito dai disabili capaci, nondimeno, di ricavare linfa dal meccanismo del sito web statunitense Tripadvisor per ottenere recensioni entusiastiche e garantire in tal modo alle persone escluse a parer loro dalla società, giacché afflitte dal cane nero della depressione o dell’invalidità, l’agognata rivincita. La sceneggiatura di gomma redatta dalla versatile ed esperta Giulia Steigerwalt – che già in Si può fare di Giulio Manfredonia aveva preso spunto dal capolavoro Qualcuno volò sul nido del cuculo dell’ineguagliabile maestro cecoslovacco Miloš Forman per garantire all’inno nostrano alla follia, altrimenti discriminata, l’appeal del richiamo cosmopolita – sa, comunque, dove andare a parare. L’adattamento della vicenda avvenuta nella Perfida Albione all’atmosfera che si respira nell’addolcita capitale d’Italia, con il centro diurno di salute mentale gestito dal severo Paris eletto a spazio di confronto dei soliti picchiatelli avvezzi alle uscite tragicomiche e all’utopica smania d’invertire l’infausta rotta, beneficia dell’intesa stabilita sul set dall’intero cast.

Sono, per l’appunto, le figure di fianco a prendersi, spesso e volentieri, la scena. I protagonisti interpretati da Stefano Accorsi (Diego) e Miriam Leone (Clara) – perfezionando l’alchimia recitativa stabilita nelle serie televisive 1992, 1993 e 1994, incentrate sia sugli intrighi dell’allora neonata Seconda Repubblica sia sui profili di Venere coinvolti nell’inchiesta di Mani pulite – lavorano sul sottotesto. Ed ergo sulla vita extra-filmica del cuoco Diego, soggetto agli scatti d’ira, afflitto dalla balbuzie, anelante di riconquistare la stima dell’immusonita figlioletta. Nonché della velleitaria attrice Clara. Bugiarda patologica. Schiava della debordante fantasia. Spaurita dal passaggio della teoria alla prassi. Voice over non certo esente dal ricalco, in filigrana, di Julie & Julia diretto dalla compianta Nora Ephron con un’attenzione particolare per i manicaretti preparati all’insegna della solidarietà femminile. Seppur a distanza. Al banale slow motion iniziale – con Diego intento a mandare all’aria qualsivoglia proposito di compostezza per uscire dalla gabbia che lo tiene prigioniero sin dai tempi della turbolenta adolescenza – fanno seguito diversi passaggi programmatici. Compensati, sul piano della forma, dalle correzioni di fuoco, predisposte con l’ausilio dell’attenta fotografia, per regolare ad hoc il diaframma della macchina da presa ed estendere le deformazioni prospettiche all’impossibilità di vederci chiaro sulle chance offerte agli individui mezzi matti. Se non folli. Eppure in quegli zoom in avanti, nella lunghezza focale, negli angoli di ripresa in cui la lucidità dell’autoanalisi sovrasta gli algidi giudizi di Paris, non v’è traccia sotto l’aspetto contenutistico d’indicativi ragguagli psicologici, staccati dalle sbavature patetiche unite alle gag di alleggerimento, ed emblematici grigiori esistenziali.

In Qualcuno volò sul nido del cuculo le gag in apparenza di alleggerimento spianavano la strada all’opportuno approfondimento dello stream of consciousness dei matti, veri o presunti, controllati dalla perfida infermiera del manicomio. In Idioti a prevalere erano le varianti satiriche, l’assurdità grottesca, con la quale comprendere le radici dell’ingiustizia e dei sogni di riscatto destinati a infrangersi come gusci di lumaca a contatto col muro eretto in nome dell’imparzialità valutativa, le pieghe farsesche adottate per afferrare la tentazione dell’iperbole. Della messinscena recitata a discapito dell’impegno reale profuso per mutare segno. Mentre il momentaneo successo del ristorante gestito da Diego e Miriam strappa qualche sorriso, ricordando l’importanza di anteporre la fragranza della verità ai miasmi delle bugie con le gambe corte, i rimandi ad About a boy – Un ragazzo di Paul e Chris Weitz, a Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, a The Commitments di Alan Parker lasciano a desiderare. Ad assorbirne i modi spigliati ed evocativi – per condurre la massima del barone Pierre de Coubertin in linea con il piacere d’inventare, d’imprimere il guizzo creativo ed eleggerlo ad antidoto contro l’angoscia dei cinici conti che tornano inesorabili – sono stati assai più bravi certi registi dello Stivale esclusi dal giro degli alfieri dell’uguaglianza. Roba davvero da pazzi! Intanto Miriam Leone, con le lenti a contatto scure e il piglio giusto per tramutare le stecche dell’icona femminile oltreoceano in accordi dello spirito, riempie i vuoti della scrittura per immagini. Stefano Accorsi appare, al contrario, troppo gigionesco: si agita molto e comunica poco. Thomas Trabacchi, nel ruolo di Paris che cela il calore umano nella freddezza di rito, si agita poco. E comunica, viceversa, molto. Non abbastanza però per consentire alla morale della favola di Marilyn ha gli occhi neri di nascondere la brama di far incetta di premi attingendo a numi tutelari, per giunta, inconciliabili. D’altronde le incongruenze non costituiscono un intralcio per le opere di presunto impegno che, invece di partecipare, vogliono vincere. Issando il copia e incolla ad assurdo vessillo.

 

 

Massimiliano Serriello