I delinquenti: l’insolito heist movie di Rodrigo Moreno

A dieci anni di distanza da Reimon, un poetico apologo sul tran tran quotidiano e sui gradi di separazione che dividono l’omonima domestica dai suoi algidi datori di lavoro, l’ambizioso ed eclettico regista argentino Rodrigo Moreno cerca di guadagnarsi nuovi applausi con l’insolito heist-movie I delinquenti partendo sempre dall’incisiva contemplazione del reale.

Che, riprendendo le cadenze introspettive impiegate per approfondire il quadro sociale contraddistinto dall’uso della lingua inglese come riverbero dell’iniqua improntitudine dell’alta borghesia di Buenos Aires ai danni della classe operaia schiava dei quartieri-dormitorio lontani dall’attanagliante metropoli, passa questa volta in rassegna l’iter giornaliero dell’impiegato di banca Morán.

L’effigie della filiale cittadina, il sottosuolo dei gesti meccanici, la disadorna efficacia dei rumori delle chiavi per aprire le porte corazzate delle apposite camere di sicurezza, la piastra di rinforzo antisfondamento della serratura in bell’evidenza, il momento del deposito, quello relativo al prelievo, l’operazione d’incasso dell’assegno, preceduta dai controlli di rito, rispecchiano la certosina cura dei particolari che funge da spia degli stati d’animo d’un addetto dinanzi al regime di autorizzazione, vigilanza e controllo dell’istituto-prigione. Quando comincia a prevalere l’impressione che la densa forza significante dell’antiretorica traligni in piatto schematismo, tirandola tra l’altro troppo per le lunghe rispetto all’impeccabile misura psicologica ed espressiva sciorinata in Reimon, Moreno muta segno. L’insistente desiderio di oltrepassare i confini delle proprie mansioni, ed ergo altresì l’alienazione cara ad Antonioni, innesca il punto di fusione tra stilemi assai diversi tra loro. Basta la schietta ed elaborata visione del mondo dell’autore, esibita per mezzo della versatile scrittura per immagini, ad amalgamare compiutamente dei tratti distintivi diametralmente opposti? Il rigore dei suoni intradiegetici cede così spazio all’uso della musica extradiegetica. Dispiegata da una sinfonia per oboe in grado di suscitare lì per lì immediate emozioni. Andando pure incontro alle aspettative del pubblico dai gusti semplici.

L’accordo truffaldino preso da Morán col collega Roman, le minacce, la diffidenza, l’inversione di tendenza, l’incursione del genere poliziesco, sublimato dalla voice over di una figura femminile d’indubbio spessore, l’universo carcerario, dove godere della buona condotta per accorciare la pena a dispetto del regime arbitrario esercitato dietro le sbarre dall’autocrate boss di turno, costituiscono elementi filmici agli antipodi. Che, nondimeno, se non altro dapprincipio, tengono vivo l’interesse di un’ampia fascia di pubblico, dai seguaci del cinema d’autore alieno a qualsivoglia coefficiente spettacolare ai fan delle opere stratificate ed eclettiche in grado di riservare frequenti sorprese, ma al contempo soffrono di parecchi squilibri. Spacciati per valori multidisciplinari capaci di restituire la polpa dell’esistenza a dispetto della gelatina del tedium vitae. Il cortocircuito onirico che si va ad aggiungere al palese e scaltro richiamo citazionistico – con diversi cult underground scopiazzati in filigrana – dovrebbe chiudere il cerchio all’insito gioco di associazioni, dissociazioni, parallelismi ed estreme disparità speculari messo in piedi da Moreno; a ben vedere, invece, esacerba l’interregno dei trapassi di tono all’insegna degli interrogativi etici contrapposti alla manifesta trasgressione delle regole. Il tassello dell’atmosfera panteistica venutasi a creare con la fuga dall’indifferente capitale, avvolta spesso nella semioscurità, trae linfa dall’ottima componente luministica.

Ma al di là dell’indubbio colpo d’occhio, impreziosito dai calibrati tagli di luce, delle immense distese verdi connesse in chiave simbolica al senso del respiro narrativo, dopo la ricorrente sensazione di soffocamento dovuta ai quadri claustrofobici esibiti strada facendo, all’egemonia della geografia emozionale sulla spirale dell’atroce solitudine, dell’ordine naturale delle cose sui diktat imposti da un consorzio civile con il cuore di pietra, dello spirito quindi sulla materia, emergono degli invalidanti limiti. Seppur inseriti nella linea classica dell’arioso inno alla libertà. Senza celare però la difficoltà a rendere sul serio il peso dei vari ambienti nello stream of cosciousness dei travet moderni. Una volta smarrito l’ambito del verosimile, in cui poter dispensare le debite punture di spillo in virtù delle doti di ritrattista sensibile e mordace che si governa con l’indispensabile misura nella cornice d’ingiustizie continue, l’afflato filosofico straborda da ogni lato. Nonostante l’intensa performance recitativa dell’intero cast, con Laura Paredes – sugli scudi – che nel ruolo della coriacea agente delle assicurazioni conferma il talento già mostrato appieno nel più riuscito Trenque Lauquen di Laura Citarella, I delinquenti coniuga empiti di riscatto ed eloquenti silenzi sulla scorta d’un infecondo cerchiobottismo. Procurando, al posto degli attesi battimani, dei legittimi sbadigli. D’altronde la vanagloria di conferire a tutta la restante noia cantata da Califano una nobiltà di rappresentazione ed esplorazione sotto e sopra le righe implica inevitabilmente lo sberleffo dell’esito soporifero.

 

 

Massimiliano Serriello