I misteri del bar Étoile: noir e invenzioni buffe per Abel e Gordon

Alla loro quinta regia in tandem, all’insegna dell’alacre bizzarria espressiva in grado di rivelare l’anima romantica dei personaggi alieni ai malinconici accordi delle opere mélo, l’abile regista Dominique Abel e la sua inseparabile compagna di vita Fions Gordon sembrano decisi con I misteri del bar Étoile ad alzare il tiro.

Coniugando la sottile deformazione caricaturale, che trae partito dai timbri atonali, ai tòpoi del genere noir per connettere all’arguzia delle situazioni strambe, contraddistinte comunque dai modi spigliati del teatro dell’assurdo, l’assoluta capacità di ammaliare gli spettatori più avvertiti attraverso gli scaltri rimandi all’atmosfera d’incertezza dall’appeal di sicuro effetto.

Il tangibile rischio di pagare dazio a un’insalubre disparità dei livelli stilistici fusi all’unisono è sopperito dalla destrezza di unire sin dall’incipit le risorse primarie della suspense, impreziosita dall’apporto della geografia emozionale che cementa l’interazione tra interni eccentrici ed esterni evocativi, e le unghiate satiriche. La presa in giro delle vittime ansiose di chiudere i conti col passato, rinvenibile nell’impasse del paria che si perde subito la protesi al braccio con tanto di pistola nel goffo tentativo d’inchiodare alle previe colpe l’ex terrorista Boris intento invece a servire i clienti dietro il bancone dell’emblematico bar senza incorrere in alcun infausto amarcord, spiana la strada al piacere dell’intrigo.

Non si tratta però solo ed esclusivamente di creare nel pubblico cinefilo il canonico stato d’attesa in chiave programmatica, richiamando alla mente gli squisiti formalismi dei capolavori in cui i tormenti morali lasciano trasparire l’ammiccante anima cool, bensì di esporre al meglio anche, se non soprattutto, l’interessante densità contenutistica d’una solida scrittura per immagini. Diametralmente opposta confronto all’esile spessore dell’insalata mista degli stilemi agli antipodi. L’effigie color pastello dell’eccentrica intesa di coppia dell’immusonito Boris con l’intraprendente Kayoko, della leale vigoria del solerte buttafuori Tim, svelto e fortunato a trovare il sosia dell’amico in pericolo, dell’abitazione agreste lungo il fiume, estraneo ai veleni di qualsivoglia metropoli, del campo santo dove rendere sinceramente omaggio ai defunti, al riparo dall’irriverenza della farsa a corto d’estro, ricavano linfa dall’egemonia degli eloquenti silenzi sulle parole vuote. Benché talvolta emergano i chiari limiti dell’inane pigrizia delle idee attinte al carattere d’ingegno creativo altrui, specie nei riguardi del nostro Roberto Benigni in Johnny Stecchino, l’accorta giustapposizione tra l’esplicita vena canzonatoria che percorre l’intera trama e l’intima desolazione di fondo consolida un umanesimo confortato dall’opportuna antiretorica. Che ribalta in sapida buffoneria i tic dello stallo esistenziale.

In tal senso Dominique Abel e signora dimostrano di possedere riserve insospettate, rispetto sia alle vetuste gag connesse alla pittura d’ambiente sia ai momenti d’autentico brivido, sulla scorta dell’inusitato slancio poetico che dona nerbo al pallore dei sentimenti. Tramite il curioso balletto corale in chiave musical, l’avvento sul versante simbolico del terremoto, i segreti venuti a galla, lo scacchiere mandato così a carte quarantotto e il piacere del puzzle da svelare svelti a cedere spazio in zona Cesarini alla realtà da contemplare. Per capire, grazie pure alla persuasiva prova del cast, che, dietro la precarietà burlesca dello spirito guardingo, si annida ne I misteri del bar Étoile l’aura di limbo della presa di coscienza. Ed ergo il trionfo, distante anni luce da qualunque componente manieristica, dei migliori angeli della nostra indole, avvezza alla convivialità, sull’oscura attrazione dell’enigma.

 

 

Massimiliano Serriello