La padrina – Parigi ha una nuova regina: suspense in salsa francese

L’appassionante crescendo di pathos, ritmo e suspense, ricavato dai motivi d’insicurezza sugli sviluppi della trama, convertiti in coefficienti spettacolari di sicuro effetto, si va ad appaiare nell’atipica comedy thriller francese La padrina – Parigi ha una nuova regina a uno scoppiettio di gag sagaci ed erudite. Predisposte ex ante dall’arguto copione originale di Hannelore Cayre.

Il talento per esibire sulla scorta dell’idonea polivalenza espressiva il valore dell’immaginazione del genere fantasy, il richiamo dell’avventura, la capacità di provocare la paura degli spettatori, ad appannaggio dei canonici horror, l’accertamento della verità alla base d’ogni poliziesco spinge l’alacre ed eclettico regista transalpino Jean-Paul Salomé a mettere parecchia carne al fuoco.

Per una volta, però, la tendenza ad aggiungere stilemi diversi tra loro ed elementi di scaltro richiamo sia per il pubblico dai gusti semplici sia per gli spettatori dal palato fine, anziché ridurre all’osso i colpi di gomito e i segni d’ammicco ritenuti superflui dai seguaci dell’austero ed ermetico lavoro di sottrazione, trascende l’impasse dei film d’intrattenimento largamente prevedibili. Giacché privi del mistero, riscontrabile tanto nella razionalizzazione dell’assurdo contemplata dalla poesia quanto nel carattere d’ingegno creativo dei gialli imperniati sugli enigmi tutti da svelare, come in Vagone letto per assassini di Costa-Gavras e Pericolo nella dimora del sottovalutato ma bravissimo Michel Deville, in grado davvero di tenere sui carboni ardenti qualunque platea. Persino quella allergica agli angusti spazi del cinema da camera dove però affiorano in pianta stabile il labirinto d’ipotesi associato allo spiazzamento delle false piste, le oscure manovre, care all’impegnato Costa-Gavras, specie in Z – L’orgia del potere, gli stratagemmi compiuti ora per portare l’acqua al proprio mulino, occultando ogni prova di colpevolezza, ora per zittire i dissidenti nelle oscure stanza dei bottoni. Salomé, in ogni caso, per non sapere né leggere né scrivere, come si suol dire, e non scontentare nessuno, trae altresì partito da Il braccio violento della legge di William Friedkin per anteporre allo spettacolo drammatico dispiegato tra quattro mura il clima di mistero risolto step by step lungo i vicoli, i marciapiedi, le strade, gli immensi campi lunghi della metropoli. Mentre l’incipit sembra tuttavia esasperare certi tratti distintivi, imperniati sulla tensione adrenalinica, che, al contrario, Friedkin, esperto anche degli scenari da brivido, seppe dosare cum grano salis, l’immediato prosieguo riserva molte sorprese su diversi ambiti. Ivi compreso quello relativo alla geografia emozionale. Certi paesaggi riflessivi infatti vanno ben oltre gli sfondi frettolosi ed esornativi tirati via alla carlona per riempire l’occhio in modo superficiale. Salomé conosce Parigi come le sue tasche: balza agli occhi.

Nella vicenda dell’immusonita traduttrice Patience Portefeux, che intercetta le telefonate degli spacciatori di droga arabi per conto della squadra narcotici, il passaggio dall’ovvio “vedere” all’attento “guardare” va a braccetto con la progressiva egemonia dell’utile “ascoltare” sul velleitario “sentire”. L’innesto, quindi, dell’infra-sapere tipico della psicologia e dell’antropologia, scevro nondimeno da qualsivoglia pesantezza accademica, permette all’avveduta scrittura per immagini di congiungere alla tambureggiante concitazione drammaturgica, che sa troppo di déjà vu, un’aura quasi meditabonda. Rispetto alle opere precedenti (da Belfagor – Il fantasma del Louvre ad Arsenio Lupin; da Female agents a The Chameleon) la molla dell’ispirazione scatta donando maggior coerenza al racconto, ai movimenti di macchina a schiaffo da un soggetto all’altro, alle dinamiche interiori ed esteriori dispiegate in campo e in controcampo, allo scandaglio ambientale. Con usi e costumi di magrabini, cinesi ed europei sugli scudi. La prevalenza delle facete note di colore rispetto all’affresco accigliato, dei timbri antropologici ed etnografici addolciti dal brio e dell’icasticità dei tocchi spassosi dimostra che Salomé trae partito meglio dal presente, addentrandosi nell’esotico con gioconda ironia, che dal passato. Preso sul serio. Nei momenti topici dello sbarco in Normandia, dei servizi segreti all’epoca del secondo conflitto mondiale, degli agenti dello Special Operations Executive (SOE), delle indagini di matrice ottocentesca, dei ladri gentiluomini d’altri tempi, dei ritrovamenti desueti. Quando la protagonista decide di fingersi una regina dello spaccio in grande stile, impossessandosi d’un carico enorme, al punto da dover riciclare gli introiti con l’aiuto della dirimpettaia asiatica aliena alle chiacchiere (“Parlare non fa cuocere il riso”) e viceversa svelta a investire nell’economia sommersa, la scoperta degli altarini, con la strizzatina d’occhio sull’esempio del cult La stangata di George Roy Hill, sottrae efficacia ai segnali dapprincipio contraddittori.

La psicologia dei personaggi, in apparenza caricaturali e appena sbozzati, scalza la psicopatologia dello spavento. Lo spettatore, colto o incolto, avvertito o fesso, diviene complice. Il viaggio nella realtà della malavita sembra lì per lì scivolare nella farsa. Strappando qualche risata di gusto. Con il risultato che la dose di malinconia di qualunque discesa nell’inferno è mandata a carte quarantotto da una sorta d’ascesa al paradiso decisamente fuori luogo. L’arlecchinata comunque funziona: la brillantezza dell’aneddoto satirico è assurta ad antidoto contro il grigiore esistenziale e il terrore ancestrale. Siamo sul terreno caro a Totò ed Edoardo Scarpetta della pochade. Che, scherzando scherzando (Pulcinella docet) dice la verità, la snuda. L’accertamento affrettato nuoce all’atmosfera di ambiguità. E, parallelamente, impreziosisce coi modi spigliati della commedia dell’arte trasmessa di bottega in bottega (per cui se si scherza, tutto, o quasi, è lecito) le arcane presenze, le ubbie, gli scatti d’ira, gli scrupolosi controlli a norma di legge, la smania d’incastrare i malviventi, il duello a distanza, il gioco a passo di danza del gatto col topo. Ravvicinato dagli eloquenti sguardi, carichi di sentimento e risentimento, dell’intenso Hippolyte Girardot nei panni dello sbirro tornato a casa con le pive del sacco. Al di là della deprecabile scuola di criminalità, ingiustificata dallo stato di vedovanza e d’orfana adulta, con le ceneri della persona passata a miglior vita sparse sull’esempio dell’opportuna antiretorica di Giovanni Veronesi in Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso, Isabelle Huppert (Patience) sciorina una prova da applausi. La matrona che viene dalla Cina con furore, preferendo il redditizio lavoro nero all’empio affare degli stupefacenti, dà un colpo alla botte della burla e l’altro al cerchio della predica in zona Cesarini. La padrina – Parigi ha una nuova regina, pur conservando il leitmotiv del cliffhanger narrativo col finale in bilico, emana una ventata d’aria fresca. Anche se da prendere con le molle. Per divertirsi nel buio della sala. Saltando sulla poltrona per le fasi al cardiopalma e reggendosi la pancia dal ridere per la buffoneria dei frizzi. Intenti a ribadire l’intima supremazia dell’allegria sui musi lunghi.

 

 

Massimiliano Serriello