Mandibules – Due uomini e una mosca: la vena anarcoide di Quentin Dupieux

Sedotto dal valore dell’immaginazione, dallo spirito surreale, dagli sguardi impassibili, attinti ad Aki Kaurismäki, dalla singolare convergenza tra nonsense, fedele all’avvertito teatro dell’assurdo, e unghiate satiriche, in linea tanto con le vignette autoctone di Charlie Hebdo quanto col brio del cosmopolita cinema postmoderno, l’ispirato ed eclettico regista francese Quentin Dupieux ci mette anche molta farina del suo sacco.

Lo testimoniano appieno l’horror spurio Rubber, zeppo d’irriverenti rimandi citazionistici ed estro parodistico, l’insolito mistery Wrong cops, svelto ad appaiare il piacere dell’enigma stravagante alla spensierata cornice burlesca, e soprattutto l’originale apologo sul tempo perduto, Au poste!, in grado di far emergere la stramberia degli intrighi presi troppo sul serio.

Mandibules – Due uomini e una mosca conferma la battuta d’arresto subita con Doppia pelle, smarrendo le perspicaci ed emblematiche frecciate all’instabilità emotiva degli ipocriti narcisisti, o costituisce l’atteso ritorno agli standard consueti del polivalente autore? L’impressione che si tratti sin dall’incipit di un film minore rispetto alle vette raggiunte in precedenza sul terreno della comicità demenziale, frammista sottobanco a quella morale, non rappresenterebbe di per sé l’automatica conferma della presunta piega involutiva. Le proverbiali inquadrature sghembe, i timbri evocativi, i pertugi indiscreti, le attese meditabonde, il ridicolo scaturito dalla futile complicità virile della coppia d’improbabili delinquenti di mezza tacca, la noia di piombo congiunta al disincanto, l’introduzione di alcune componenti caustiche e inopinate nell’ovvio tessuto dei buddy movies statunitensi, schiavi degli arcinoti colpi di gomito stabiliti dall’illusione dell’avventura, fiore all’occhiello dell’intrattenimento privo d’ogni guizzo stilistico, basta ad andare oltre la ripetitività di qualsivoglia farsa fracassona. Tuttavia la padronanza esibita nella sapida direzionalità dei movimenti di macchina, nelle valide tecniche aggiuntive e nell’erudito criterio sistemico a supporto dell’incredibile scoperta di una mosca gigante nel bagagliaio della scalcagnata automobile in giro per la Costa Azzurra aderisce ad aspetti formali sforniti dell’opportuno contraltare contenutistico.

L’esanime critica di costume rivolta ai problemi del benessere, giustapposti agli indugi e all’imbarazzo dei losers dinanzi ai ricconi di St. Tropez, mostra immediatamente la corda. Fortuna che a precederla provvedano gli spassosi lazzi di Manu e Jean-Gab, lungi dal battere ciglio a dispetto dei continui inconvenienti. L’intarsio d’idonei sketch, puntuali freddure ed esilaranti sguaiataggini prende le debite distanze dai giochi fini a se stessi grazie all’indubbia capacità di tenere sulla corda gli spettatori e al grado zero dell’interpretazione. Il carattere d’autenticità sia dello spassoso Grégoire Ludig, nei panni dell’attonito Manu scambiato per un vecchio compagno di scuola dall’ennesima figlia di papà, sia del misuratissimo David Marsais alias Jean-Gab è infatti utilizzato dallo scaltro Dupieux come il tassello chiave del puzzle dei gialli canonici. L’aggiunta dell’intesa effettiva, stabilita dai duetti sul piccolo schermo nel programma Palmashow, richiama l’alchimia del compianto Massimo Troisi con Lello Arena. Senza avvertire la deleteria vertigine degli attori avventizi nel passaggio dai collaudati numeri di cabaret all’arduo lavoro sui personaggi. Al servizio, in questo caso, di una rivisitazione perlomeno curiosa del cult L’angelo sterminatore di Luis Buñuel. Che però smarrisce nerbo ed esuberanza, per addurre modifiche degno d’encomio, nel momento di dare gas. La marcia viceversa all’indietro del confronto dei caratteri, nel solco delle classi sociali perennemente in attrito, palesa la nociva raffazzonatura dell’ausilio recato dalle modalità chiarificatrici negli esterni, in qualche paesaggio riflessivo in chiave western, e nei cospicui interni. Nella villa con piscina dei nababbi a corto d’intelligenza.

Il regresso invece degli spunti scherzosi, sciupati dallo scarso rispetto della verità psicologica, mena per il naso le platee desiderose di ritrovare la feconda vena d’ironia del passato. Estranea pure al ritratto sopra le righe della sofferente Agnès, impersonata dalla pur brava Adèle Exarchopoulos, che, svelando l’arcano all’origine dei ripetuti equivoci, tradisce vari debiti verso Johnny Stecchino di Roberto Benigni e Forrest Gump di Robert Zemeckis. Il pistolotto edificante legato al cavallo di Troia della deformazione burlesca dei disagi mentali non rende onore all’arguzia di Dupieux. In cerca stavolta, nella coalescenza degli sguardi dei compari sprovvisti d’empatia, d’immagini cariche di senso. Concernenti l’ordine delle cose, sovvertito nel vano mix di buffi qui pro quo ed enfatiche pecche patetiche. La location, quantunque inserita in un’ottica stranita ed ergo scevra dalla lagna degli spazi esornativi, resta comunque in disparte. Incidendo poco o niente sull’intima geografia. Conforme ai barlumi introspettivi. Mandibules – Due uomini e una mosca manda così a monte l’idea di unire l’agilità del racconto ai timori ancestrali contemplati dagli spettacoli immusoniti e il vivace viavai dell’ansia bonaria che investe il privato ai cupi accenti dello scandaglio collettivo dei nuovi ed eterni mostri. Abituati a inghiottire la debole pietas.

 

 

Massimiliano Serriello