Mondospettacolo incontra Francesco Rodrigo, attore che fa il pieno di emozioni utili

Francesco Rodrigo Sirabella Sinigallia non è Al Pacino. Ma nemmeno Al Pachino. Citando Valentino Campitelli nella spassosa e arguta pièce teatrale 3 attori in affitto. Figlio d’arte, con la madre, Gloria Sirabella, disposta ad anteporre l’amore genitoriale al sogno di divenire un’interprete dalle corde recitative poliedriche, in grado di lasciare il segno nella fabbrica dei sogni, e il padre, Daniele Sinigallia, prodigo produttore musicale ed eclettico compositore avvezzo a rinverdire gli albori delle canzoni dei significativi anni Settanta, Francesco guarda alla terza decade del nuovo millennio sulla scorta del valore terapeutico dell’umorismo.

Da buon romano costeggia l’ironia, il sarcasmo, il disincanto per non pagare dazio allo spettro di ottenere parti poco incisive come attore privo dei contributi sociali riconosciute ad altre figure professionali. L’incubo non sfiora nemmeno. Afferrare le nuvole è impossibile. Tenere i piedi per terra è possibile. Coronare le ambizioni lavorative grazie all’indubbia capacità di appaiare spontaneità ed estro attoriale non è un’utopia. Sul piccolo schermo ha affiancato attori del calibro di Alessandro Gassman e Claudio Amendola. Ora ha la chance d’incidere al cinema. Dimostrando di non essere un piccolo pesce in un grande stagno. La stoffa c’è. La personalità pure. Mondospettacolo l’ha incontrato per testarne la volontà che lo spinge a lavorare su se stesso e sul personaggio come fosse un veterano.

 

L’arte ce l’hai, Francesco. La parte ideale, mantenendo il giusto riserbo anche per lasciare agli spettatori il piacere di scoprirne le frecce al suo arco, è quella assegnatati nell’ultimo film diretto da Kassim Yassin Saleh?

Me lo auguro. Ma al di là delle speranze, che possono infrangersi contro il muro dell’evidenza contraria, e non sarei in tal caso né il primo né l’ultimo che ripone troppe aspettative in un progetto per poi rimanere deluso, ho buone sensazioni. Ovviamente sono pure fatalista. L’ambiente del cinema è un ambiente stimolante che però spesso ti svuota anche.

 

È meglio fare il pieno di emozioni, al fine d’irrobustire il carattere d’autenticità necessario a comporre le dinamiche interiori ed esteriori del personaggio da interpretare, perché alla fine della giornata il lavoro sul set mette ko pure Tyson?

È figo come l’hai spiegato, Massi: ti voglio bene. Non lo dico tanto per ostentare la stima. Mi sei rimasto impresso sin da quando ci siamo incontrati al Nuovo Cinema Aquila. Al Pigneto. Insieme ad Andrea Autullo. Ricordo con che disinvoltura e profondità d’analisi hai posto le domande ai registi presenti. Autori di corti d’autore. Compreso Kassim. Poco prima che cominciassero le riprese del film di Kassim. Chi avrebbe immaginato che sarebbe poi scoppiata una guerra vera.

 

Una guerra in cui i poveri muoiono in battaglia e i ricchi stanno al riparo. Pronti al momento giusto, per dirla alla Trilussa, a ricambiarsi la stima, “boni amichi come prima”. L’amicizia cementa la voglia di fare il pieno di emozioni?

L’amicizia sul lavoro è qualcosa di raro. Forse di delicato. L’ambiente del cinema è frenetico, competitivo, si lavora in gruppo, non ci si può isolare. Occorre collaborare. Andare d’accordo. Darsi una mano. Remare insomma nella stessa direzione. Si parte da un’idea. Poi quell’idea prende forma in un film. Ogni figura professionale ha il suo perché. L’intesa dell’amicizia sincera, per cui non esistono incomprensioni o gelosie, è secondo me un valore aggiunto. Donare emozioni è qualcosa d’impegnativo. Farlo attraverso la recitazione richiede concentrazione. L’amicizia autentica serve ad allentare la tensione. Sennò il rischio implosione diventa tangibile. Allora…

 

Bonanotte ai sonatori, Francé?

Esatto. Me fai tajà.

 

Lieto di rallegrarti. Parliamo in italiano a beneficio di chi legge e anche del sottoscritto che sbobinerà quest’intervista. Andrea Autullo, un mio caro amico, come attore e come uomo è affezionato alle forme bandiere del vernacolo romanesco. Sul set la sua ironia capitolina ha alleggerito lo stress?

Nel modo più assoluto. Nelle chiacchierate precedenti quest’intervista hai definito l’ambiente del cinema pesante come il piombo. Vuoi per le prime donne che si prendono troppo sul serio. Vuoi per gli attori a caccia perennemente di pose gratificanti per mettere in risalto se stessi e in ombra gli altri. Bisogna tenere sempre le antenne dritte perciò. Non solo per aderire appieno agli slanci, i semitoni e gli accenti, non solo vernacolari, del personaggio. Ma anche per non farsi prendere dal panico. Dalla paura di perdere un’occasione irripetibile. La fatica si fa sentire in ogni caso. Anche quella corporea. Lo spirito conta anche parecchio. Uscire da un set svuotati è un incubo.

 

Altro che cinema inteso come fabbrica dei sogni.

Appunto. E recitare insieme ad Andrea Autullo nel film di Kassim è stata una favola. La sua romanità frammista alla voglia di sdrammatizzare tutto l’ambaradan, quando il timore di gettare alle ortiche il lavoro fatto su noi e i personaggi rischiava di arrivare alle stelle, si è rivelato un tonico prezioso.

 

Come sai ci sono illustri precedenti. Sul set de Il padrino Al Pacino, James Caan e Robert Duvall si prendevano in giro per stimolare l’arguzia l’uno degli altri prima di mettere la loro psicotecnica al servizio di scene rimaste nella storia del cinema. Ti anima pensare a una simile affinità o t’atterrisce?

Mi verrebbe da rispondere né l’uno né l’altro. Ma non è vero: il mix di scoramento ed euforia fa parte integrante di quest’ambiente. Che richiede dedizione ed entusiasmo. Dinamismo e umiltà. E anche, se non soprattutto, tanta, tantissima autoironia. Andrea Autullo n’è ben provvisto. Ci prendeva in giro. E si prendeva in giro allo stesso tempo. Sdrammatizzando in tal modo prima di girare scene decisive. Affrontarle con animo sereno, allietato persino, non autorizza qualunque sogno pindarico – Il padrino e i suoi interpreti nun se battono. Tuttavia permette di fare il pieno di cose buone. Non è mica poco: è basilare.

 

È come fare benzina.  Con Alessandro Sardelli hai stabilito un’intesa degna di nota. È merito dell’ironia o di una sana competizione che si crea tra attori giovani decisi a sfondare?

Sono affezionato ad Alessandro. Non gli metterei mai i bastoni tra le ruote. Anzi. Sul set, oltre a prenderci in giro, ma più che altro il guascone che metteva in mezzo noi due era Andrea Autullo (foto in basso, ndr), ci diamo una mano l’un l’altro. Ci conosciamo bene. Abbiamo già lavorato assieme. Poi è chiaro che ciascuno abbia il proprio modo di porsi, di affrontare le sfide professionali, di perfezionare i meccanismi psicofisici a beneficio del personaggio da interpretare, di approfondire il sentimento richiesto dal regista, di afferrarne le indicazioni, di dargli qualcosa.

 

E di restituirgli qualcosa. Nanni Moretti sostiene che ne La stanza del figlio Silvio Orlando nel ruolo del malato immaginario che a un certo punto si ammala davvero gli ha restituito al meglio il mix d’indicazioni ed emozioni ad appannaggio del rapporto attore/regista. Hai sostenuto un provino per far parte di Tre piani. Sei un sopravvissuto?

In un certo senso. A parte gli scherzi, anche solo sostenere un provino per un regista così preparato ed esigente costituisce un’esperienza perlomeno singolare. Stiamo parlando di uno dei nostri autori più apprezzati all’estero. Specie in Francia. Dove è considerato un mito. A ragion veduta secondo me, se non altro nell’ambito di un cinema che non punta all’incasso bensì alla riflessione. Moretti non lascia nulla al caso. Meno che mai la mimica facciale, il bilanciamento compositivo legato alle inquadrature che traggono linfa da quella mimica facciale.

 

Nanni Moretti cura il rettangolo di attenzione. Che veicola l’interesse del pubblico verso un’intersezione decisiva per la scrittura per immagini. Un altro regista attento alla soglia dell’attenzione sul set è Giulio Base. Ti ha diretto in Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma. Per me stabilisce il punto d’incontro tra il modo di essere attore di Claudio Amendola, che ha diretto in Poliziotti, e il modo di essere di Moretti. Che lo ha diretto in Caro diario. Giulio ha definito la definizione divertente. Ti sei divertito sul set con lui. Cosa hai imparato?

Che non si finisce mai d’imparare. Di perfezionarsi. Di accrescere il proprio bagaglio culturale. Giulio è inesauribile. Ha grinta da vendere. Le idee chiare. Il film da girare lo ha in testa. Sa bene cosa vuole dal cast. E sa altrettanto bene che tasti toccare per spingere gli attori e le attrici che dirige a dare il meglio. Proprio perché è un attore egli stesso. È anche un intellettuale. Con una conoscenza enciclopedica dei migliori autori letterari. Come attore so che è molto spontaneo. Molto vero. In Un cielo stellato sopra il cielo di Roma impersonava un maestro di musica. Un intellettuale. In altri film ha impersonato al meglio personaggi più impulsivi e popolari.

 

Che si confrontano nella ressa delle strade di pasoliana memoria.

Verissimo. Personaggi che anche Claudio Amendola ha interpretato al meglio. Sono stato protagonista di puntata sul set della serie televisiva Nero a metà in cui Claudio impersona l’ispettore Carlo Guerreri.

 

Me lo ricordo. Ritengo Claudio Amendola il miglior attore italiano vivente in virtù della capacità di arricchire l’invisibile ma inobliabile tavolozza dei suoi personaggi che interpreta sulla scorta di quanto ha appreso dall’università della strada.  Frequentare questo tipo di università ha aiutato anche te?

Ma sì, dai: tutto serve. Serve il materiale emotivo. Serve il bagaglio culturale. Serve l’esperienza. Maturata sui banchi di scuola. Ma anche nella citata ressa delle strade. Dove serve tenere le antenne dritte. Anche là si fa il pieno di emozioni ed energie importanti per conferire all’altalena degli stati d’animo che arricchiscono le memorie affettive una linea di continuità. Fra le indicazioni del regista, che ha una propria visione del personaggio, e il sottotesto creato dall’attore sulla base dell’esperienza di vita.

 

Una reviviscenza promossa a resilienza?

Lo spero. Nel senso che un conto è trarre linfa dalla propria esperienza. Un altro paio di maniche è costruire la propria fortuna trasformando la difficoltà in opportunità.

 

Ci riescono gli attori abituati a soffrire nella vita ed esprimere il carattere d’autenticità nella piena consapevolezza che non basta mostrare. L’essenza della tua professione paga mai dazio ad alcuni momenti d’impasse?

I momenti in cui a un attore giovane in cerca di consacrazione viene voglia di gettare i remi in barca non mancano. Sono molti gli attori diciamo di belle speranze che hanno un piano b o doppio lavoro che dir si voglia. Prima viene la sopravvivenza. Dopo si alimenta la speranza. L’inquadramento della categoria degli attori e delle attrici sia di cinema sia di teatro è una bella gatta da pelare. Io vivo la professione dell’attore come un mestiere che deve permettermi di vivere in autonomia. Senza piani b.

 

Intendi quindi procedere un passo per volta?

Per forza. Altrimenti si rischia di rimanere delusi. Torniamo al bisogno di unire l’arte alla parte. Che hai sottolineato all’inizio dell’intervista. Non è facile trasformare la professione dell’attore in un lavoro a tutto gli effetti. Ma la sfida va raccolta. Con purezza di cuore. E decisione.

 

Tanto dipende dal grado d’intensità di emozioni con cui si fa il pieno. Questo l’abbiamo appurato. Resta stabilire se sei un bello che balla. Mi spiego. Elio Germano in Mio fratello è figlio unico ha interpretato un personaggio inobliabile. Che è meno bello del fratello maggiore, che conosce più il latino, che non considera una lingua morta e tiene viva la speranza di lasciare il segno. Tu da figlio unico come la tieni viva?

Io tengo vivo la speranza di lasciare il segno come attore comprendendo che la bellezza non basta a bucare lo schermo. Non so se sono un bello che balla. Ma so che non voglio essere un bello che non balla. So, come hai spiegato tu stesso, che mostrare non basta: occorre essere. Io mi sono immedesimato nel personaggio di Manrico che Elio Germano interpreta con incredibile aderenza agli slanci e alla rabbia giovanile in Mio fratello è figlio unico. Ed è la forza del processo d’identificazione che la recitazione crea. Animando contesti che trascendono la semplice bellezza. Che comunque fa comodo. Se abbinata ad altre cose. Tipo la verità delle emozioni che un attore intende trasmettere lavorando su stesso e sul personaggio. Gisella Burinato è un’attrice e una docente che non torna all’abc quando spiega i motivi per cui alla fotogenia, importante – è ovvio – nella scrittura per immagini del cinema, questo è fuori discussione, bisogna saper aggiungere passioni profonde. Corporee e incorporee.

 

Al di là dei precetti che risalgono al guru per eccellenza Konstantin Sergeevič Stanislavskij  in merito al lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio il succo qual è?

Il succo è che, secondo Gisella, ho la grande fortuna che sullo schermo posso essere sia bello sia brutto. A seconda delle circostanze. Dei personaggi da interpretare. Quindi intendo mettere a frutto questa fortuna.

 

Per dare il fritto come attore e ripagare tua madre dei sacrifici compiuti per permettere al sangue del suo sangue di realizzare il sogno rinvenibile nel brano Uno su mille ce la fa?

Non so se sarò uno che su mille ce la farà a realizzare il sogno di diventare un attore affermato. Intenzionato a migliorarsi step by step. Ma so che darò il fritto come dici te perché ciò avvenga. Lo devo a mia Madre. La persona migliore che conosco. Che ha rinunciato alla sua carriera per crescermi.

 

I legami di sangue rafforzano la verità interiore per garantire autenticità ed empatia alle emozioni con cui fai l’ormai famoso pieno?

I legami di sangue sono la benzina di cui parlavi prima. La garanzia di verità conta tantissimo. La verità delle circostanze da creare in un film costituiscono uno stimolo importante. L’amore di un figlio attore per una madre attrice è lo stimolo primario.

(Photo credits: Luca Carlino e Azzurra Primavera)

 

Massimiliano Serriello