Nel nome della terra: il “western agricolo” di Edouard Bergeon

Con Nel nome della terra, diretto dal regista Edouard Bergeon – proveniente dall’universo dei documentari – e interpretato da un perfetto Guillaume Canet,  si torna a temi molti cari al cinema transalpino, nonché raramente affrontati dalla nostra cinematografia; anche se, ogni volta che lo ha fatto, è riuscita nell’impresa di sfornare piccoli capolavori.

Questa volta ci troviamo nell’anima rurale della Francia, ormai da tempo sotto assedio. Quella che abbiamo visto sfilare tante volte con i famigerati gilet gialli, bloccati quest’anno dai toni ormai apocalittici del famigerato Coronavirus.

Per ricavare la storia posta al centro di Nel nome della terra, Edouard Bergeon sembrerebbe essersi ispirato direttamente al lavoro dei suoi genitori, in quanto racconta in fotogrammi di un’azienda agricola in difficoltà, a causa di un’epidemia che infetta gli animali. Un’azienda lasciata sola dallo Stato ad affrontare i suoi problemi economici.

Nel nome della terra è un film semplice, dunque, che potremmo quasi definire bucolico, mirato ad inscenare  il duro lavoro della semina, del curare ogni giorno gli animali dell’allevamento. Quasi un western del XXI secolo calato nel cuore dell’Europa, oltre che girato in modo egregio. Fanno da ambientazione, poi, i capannoni che, in breve, spengono i loro colori e sembrano quasi rappresentare la prigione del protagonista.

Non vi è dubbio che in Nel nome della terra vi siano molti richiami anche pittorici, sia per quanto riguarda le scelte fotografiche di Eric Dumont che per i paesaggi dell’Ottocento della campagna d’oltralpe, ma l’aspetto estetico del lungometraggio non fa altro che accentuare la solitudine del già citato protagonista, in lotta contro tutto e tutti. Ricordando, a tratti, almeno film legati alla lotta dell’uomo per la sua terra.

In conclusione, non possiamo parlare altro che di una produzione che, decisamente, ben si adatta a quelli che sono per l’umanità i complicati e difficilmente confortanti tempi attuali.

 

 

Roberto Leofrigio