Nomadland: la passione del vero di Chloé Zhao

Dopo aver conquistato il Leone d’Oro alla settantasettesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in attesa di approdare sulla piattaforma Disney+, passando dalla voga del circuito elitario al concreto consenso di massa, Nomadland diverrà l’asso pigliatutto al Dolby Theatre di Los Angeles il 25 Aprile 2021 nella notte degli Oscar?

L’ambiziosa regista cinese Chloé Zhao, che già con il previo mélo The rider – Il sogno di un cowboy era riuscita ad appaiare la passione del vero d’ascendenza neorealista agli stilemi del genere western, ritenuto dal venerando attore Robert Duvall l’Eneide dell’immaginario collettivo statunitense, ha comunque scalzato la concorrenza della poliedrica interprete afroamericana Regina King al debutto dietro la macchina da presa con l’incalzante Quella notte a Miami. Lee Isaac Chung con Minari ed Emerald Fennell con Una donna promettente difficilmente potranno farle lo sgambetto. Anche se non è detta l’ultima parola. In questi casi, non si sa mai.

L’unica certezza risiede nello scaltro mix di geografia emozionale e rigore intellettuale scelto per adattare al grande e al piccolo schermo l’omonimo libro d’inchiesta dell’alacre giornalista Jessica Bruder. Decisa a vivere in camper per testimoniare il nomadismo dovuto all’atroce crisi economica. La furbizia del cerchiobottismo si va ad amalgamare all’opera di geometrica giustapposizione che replica alla schiettezza dell’indagine originaria accostando allo studio antropologico ed etnologico delle sottoculture l’impiego dei semitoni. L’evidente lavoro di sottrazione, sia pure privo della solennità evocativa ad appannaggio del compianto guru transalpino Robert Bresson, coglie lo stesso nel segno quando l’immusonita Frem apre il proprio furgone mostrando attraverso la cornice del veicolo una finestra sul mondo sull’esempio di John Ford in Sentieri selvaggi. Basta poco al richiamo citazionistico in filigrana, grazie all’iniziale supporto della sbandierata antiretorica, per esibire la correlazione oggettiva tra habitat ed esseri umani. La vena sotterranea della critica sociale passa perciò attraverso l’approccio semidocumentaristico da una parte, con la crudezza oggettiva sugli scudi, e la necessità espressiva dei campi lunghi dall’altra.

Lì per lì le lunghe scie di silenzio e gli effetti seducenti del paesaggio, catturato tanto nei tramonti rosso fuoco quanto nei più sfumati archi aurorali dell’alba dalla fotografia dell’attento Joshua James Richards, che continua sulla falsariga intrapresa in La terra di Dio – God’s own country di Frances Lee, assicurano alla trama povera d’azione l’opportuna ricchezza di sfumature ed echi crepuscolari. L’insistito sibilo del vento, le inquadrature di profilo della protagonista alla guida, l’abitacolo che la spinge a rigettare con una certa ironia l’appellativo di “senzatetto”, il rifiuto del melodramma e dell’enfatico apologo sui vincoli di suolo spianano la strada all’affascinante scoperta dell’alterità. Le sequenze sul lavoro, come magazziniera per Amazon, come donna delle pulizie in un camping e come cameriera in un pub, non spiccano però mai il volo. Al contrario degli emblematici tran tran giornalieri catturati nei propri dramedy da Ken Loach. Aedo della working class anglosassone. L’andamento ascetico ed episodico del racconto, sorretto dal fluido montaggio curato dalla stessa Zhao per unire lo stile sobrio ad alcune prospettive a largo raggio in grado di trasportare gli spettatori nel clima di complicità creatosi in mezzo ai nomadi del terzo millennio, cede talvolta la ribalta allo schema esplicativo delle canzoni intradiegetiche. I cui versi, al pari delle immortali parole coniate da Shakespeare in Macbeth e in Sonnet 18, sembrano voler imprimere un’inversione di tendenza fondata sul panegirico del tempo perduto caro a Proust. Rinvigorito dai rimandi all’ordine naturale delle cose.

Il senso di meraviglia, riposto nel sorriso quasi fanciullesco della sessantenne Frem che subentra al piglio ingrugnato nella visita al parco nazionale delle Badlands nel Dakota del Sud, sa troppo di programmatico. Ed ergo di predicatorio. Chloé non arriva nemmeno alla caviglia del miglior Werner Herzog. La comparizione dell’immenso serpente, del coccodrillo, del modello di dinosauro di venticinque metri traligna quindi nell’impasse dei tempi morti e delle cospicue zone di freddezza. Riscaldate in zona Cesarini dalle frecce di Cupido. David Strathairn, nei panni del vetusto corteggiatore, pacato e impacciato, merita nuovi plausi per l’impeccabile sottorecitazione. Frances McDormand (Frem), ulteriormente motivata dal ruolo altresì di produttrice, mette l’avvertita mimica al servizio della storia. Punteggiata d’incontri, mesti ricordi, cerimonie funebri, rocce nascoste ed eden catartici. Nondimeno emerge l’imbarazzante scarto tra la performance a caccia dell’ennesima statuetta e i volti neolitici degli autentici nomadi. Nomadland, a differenza del negletto capolavoro Gli invisibili di Oren Moverman, con Richard Gere in stato di grazia, capace realmente d’immergersi nell’esercito degli homeless newyorchesi, vagheggia l’idonea sincerità narrativa. Per poi cercare di convertire lo scontato pietismo conclusivo nella dolce pietà degli affreschi introspettivi impreziositi dalle empatiche tecniche di straniamento.

 

 

Massimiliano Serriello