Non ci resta che il crimine: cosa resterà degli anni… di piombo!

Se, ponendo al proprio centro un viaggio nel tempo, a cominciare dal titolo omaggia il Non ci resta che piangere che nel 1984 vide Roberto Benigni e Massimo Troisi tornare inspiegabilmente nel 1492, il sesto lungometraggio diretto dal romano Massimiliano Bruno non manca in maniera evidente di cercare di rievocare il nostro cinema poliziottesco degli anni Settanta fin dalla sua apertura, accompagnata da una colonna sonora di Maurizio Filardo che tanto ricorda certi temi di Franco Micalizzi.  

Del resto, in mezzo a split screen efficaci ai citati “fini nostalgici”, pur prendendo avvio nella Città eterna del 2018 con Moreno, Sebastiano e Giuseppe, tre non molto fortunati amici di lungo corso che, rispettivamente incarnati da Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, stanno organizzando un tour alla scoperta dei luoghi simbolo della Banda della Magliana, è nel 1982 che si svolge la quasi totalità della oltre ora e quaranta di visione.

Il 1982 dei campionati mondiali di Spagna, anno in cui il trio finisce improvvisamente catapultato – attraverso un escamotage in stile Sotto il ristorante cinese di Bruno Bozzetto – pensando, poi, di guadagnare un po’ di soldi sfruttando il fatto di essere già a conoscenza dei futuri risultati delle partite; senza immaginare, però, di trovarsi faccia a faccia nientemeno che con lo spietato Renatino, capo della famigerata gang che, dalle fattezze di un convincente Edoardo Leo affiancato da una sexy Ilenia Pastorelli, all’epoca gestiva le scommesse clandestine sul calcio.

E, tra accendini con sopra scritto “Pijamose Roma” e Tre parole di Valeria Rossi canticchiata diciannove anni prima della sua uscita, sono le tanto improbabili quanto goffe strategie di sopravvivenza di questi tre uomini dell’ultratecnologico presente scaraventati in un passato ancora privo di sigarette elettroniche, marmitte catalitiche e internet a fare da motore ad una sceneggiatura ad orologeria strizzante in parte l’occhio – e in maniera inevitabile – a quelle della trilogia Ritorno al futuro.   

Sceneggiatura che, scritta dal regista stesso – anche presente nel ruolo dell’ex nerd Gianfranco – insieme ad Andrea Bassi e ai Nicola Guaglianone e Menotti (all’anagrafe Roberto Marchionni) cui si deve lo script di Lo chiamavano Jeeg robot, proprio come nel caso del lungometraggio diretto da Gabriele Mainetti manifesta il pregio di delineare un prodotto di genere esportabile ma capace, allo stesso tempo, di mantenere il suo sapore italiano grazie ad una romanità sapientemente giocata.

Romanità ovviamente sfruttata al fine di strappare risate allo spettatore; sebbene, a differenza delle sempre più innocue e rassicuranti produzioni tricolori d’inizio XXI secolo, Non ci resta che il crimine non punta in maniera banale alla comicità a tutti i costi, bensì la utilizza per concretizzare una commistione di ironia e vicenda di taglio fantastico volta all’intrattenimento e sfoggiante anche il coraggio di non lasciare fuori dal discorso morti, colpi di pistola e accenni di violenza, come avviene per lo più nelle storie pulp in fotogrammi provenienti dall’estero.

Commistione al di sopra della media che, divertente al punto giusto e infarcita di morale relativa all’importanza dell’amicizia, in questo palese incontro tra la sopra menzionata saga di Robert Zemeckis e gli ingredienti della serie televisiva Romanzo criminale individua, inoltre, uno dei suoi momenti maggiormente riusciti nell’esilarante sequenza della rapina con travestimenti da componenti delle rock band Kiss e Rockets.

 

 

Francesco Lomuscio