IL SIGNORE DEGLI ANELLI

Negli ultimi anni Peter Jackson ci ha regalato (e l’operazione è ancora in corso) la possibilità di vedere i capolavori di Tolkien (Il signore degli anelli, Lo Hobbitt) prendere vita con modalità molto realistiche, grazie alla moderna tecnologia digitale degli effetti speciali (fino a 20 anni fa sarebbe stato decisamente complicato mostrare così tante creature così diverse tra loro tutte insieme), e nonostante qualche inevitabile pecca nella trasposizione (troppo compresso il Signore degli Anelli, troppo “gonfiato” lo Hobbitt), il risultato è comunque apprezzabile.
Ma forse non tutti si ricordano di un precedente tentativo di portare sullo schermo la celebre saga fantasy: fu nel 1979, ad opera dell’animatore Ralph Bakshi.
Date per l’appunto le difficoltà tecniche di allora a rendere un’opera simile in modo realistico con attori in carne ed ossa, l’unica strada possibile era per l’appunto il disegno animato: e dato che la storia, a un occhio superficiale, era in fondo una grossa fiaba, quindi fruibile per i giovanissimi, il cartone animato era perfetto.
Bakshi pensò di dividere la saga grosso modo in due parti, sia pure non proprio uguali: infatti questo film contiene tutto il primo libro (La compagnia dell’anello) e buona parte del secondo se non quasi tutto (Le due torri). Si inizia quindi con la formazione della compagnia dell’anello, e si termina con la battaglia del fosso di Helm (per chi conosce la saga).


L’animazione era molto curata e i personaggi ben disegnati e animati. Inoltre venne adottata una tecnica particolare: diverse scene vennero girate “dal vivo” con attori e figuranti, e poi i fotogrammi vennero “ricalcati” con i disegni ottenendo così una particolare animazione molto realistica e suggestiva. Ma proprio questa tecnica così innovativa costituisce uno dei limiti del film, per l’uso incoerente che ne venne fatto: infatti non venne seguito alcun criterio logico nell’applicarla.
Per esempio, si sarebbe potuta applicare solo alle scene di massa, mantenendo l’animazione tradizionale per i primi piani dei protagonisti; o ancora, utilizzarla nei campi lunghi e non nei primi piani. Invece nessuno di questi criteri venne seguito, e alla fine tutto l’insieme sembra un po’ gestito a casaccio, rischiando quasi di confondere le idee allo spettatore.
Risultato fu che il film ebbe un grande lancio pubblicitario e grande risonanza (e molti profani scoprirono Tolkien e il fantasy per la prima volta), ma il risultato commerciale fu deludente, al punto che il secondo film previsto non arrivò mai e l’opera progettata rimase a metà.
Fu un peccato, perché come detto sarebbe bastata una maggiore coerenza nella gestione dell’animazione, che da un punto di vista tecnico era più che valida, e ci sarebbe voluto un ventennio per poter vedere nuovamente l’opera di Tolkien al cinema. Ma forse al mezzo insuccesso contribuì anche l’ambiguità del target: i cartoni animati venivano considerati “da bambini”, ma la storia era forse più per adulti, finendo per scontentare entrambi.


Però il film, come detto, ebbe il merito di “sdoganare” Tolkien e il fantasy che prima, almeno in Italia, erano roba per iniziati: perché se forse al botteghino non funzionò del tutto, funzionò invece benissimo tutto il merchandising indotto, e copie del “Signore degli anelli” (volume peraltro ponderoso…) iniziarono a circolare in gran numero, insieme ad altri volumi dello stesso genere (come la saga di “Shannara” di Terry Brooks).
Oggi, confrontato con il monumentale lavoro di Jackson, il film di Bakshi appare modesto, però merita di essere visto ugualmente (e non mancano gli irriducibili che addirittura lo preferiscono).

Giuseppe Massari