Mondospettacolo incontra Gioia Avvantaggiato, produttrice di Venezuela, la maledizione del petrolio

Va dritta al punto, Gioia Avvantaggiato. Ha carattere da vendere. Non è interessata al ritardo della pubblicazione del bando relativo al Film Distribution Fund per il 2020, dovuto alla mesta emergenza del Covid-19. La qualifica d’essai assegnata dalla Direzione Generale Cinema e Audiovisivo – MiBACT, insieme alle erogazioni accordate in nome della cultura, non è in cima ai suoi pensieri. Gioia è un’imprenditrice che privilegia l’interazione tra avviso sociale ed elaborazione creativa dei documentari intenti a scandagliare la realtà. La sua GA&A Productions ne ha portati molti alla ribalta.

L’intenzione adesso è cogliere con una sorta di diario l’anima dei lavoratori necessari che garantiscono i servizi con l’incognita esacerbata dalla paura del contagio. Venezuela, la maledizione del petrolio – il documentario realizzato in associazione con ARTE, RTS, SVT, NRK, che sarà trasmesso lunedì 30 Marzo alle 22.40 su Sky History al canale 407 – è un altro fiore all’occhiello di Gioia come produttrice. Vederlo aiuta a comprendere i risvolti di una crisi umanitaria sulla scorta del pluralismo dei punti di vista cari a Pirandello.

 

Ora, nell’era del Coranavirus, ed ergo pure della chiusura delle sale cinematografiche, quanto conta produrre o comunque averlo fatto prima, anziché opere d’evasione e di finzione, documentari destinati quindi al mercato domestico in grado di allargare le prospettive degli spettatori cogliendo dal vivo tristissime realtà?

È veramente una domanda impegnativa ma anche stimolante. In considerazione dei tempi che stiamo vivendo. Con la lotta al ferocissimo virus, il rischio dell’epidemia, lo stato d’emergenza, l’inevitabile limitazione della libertà, le misure adottate per contenere l’atroce contagio, è difficile, se non impossibile, capire davvero cosa succederà da qui a una settimana. Specie in virtù dei provvedimenti normativi sempre più stringenti e dei cambiamenti giorno per giorno che comportano necessità diverse rispetto a prima. Questo periodo di forzato isolamento ci spinge a riprendere in considerazione una serie di cose che in precedenza davamo per scontate.

 

Tra queste c’è il tempo libero. Ora molti ne hanno pure troppo. Più di quello richiesto. La domanda d’intrattenimento con Netflix è aumentata: la gente ha bisogno di svagare la testa. Nelle tendenze di una popolazione civile in piena emergenza l’informazione fornita dai documentari è un valore aggiunto rispetto ai giornali, ai telegiornali e alle notizie diffuse dalla Rete Internet?

La penetrazione del mercato, anche quello casalingo, comporta una strumentazione piuttosto ampia ed elaborata. Misurarne l’impatto, ribadisco, è assai complicato al momento attuale. Comunque comprendo perfettamente il senso della tua domanda. L’economia dell’intrattenimento che ha come punto di riferimento solo ed esclusivamente il versante autoctono merita rispetto. Anche se personalmente, in tempi non sospetti, ho preferito produrre opere d’impegno che non trovano facilmente le sponde in Italia per ottenere i finanziamenti. Perché, come dici tu, aggiungono il timbro stilistico della scrittura per immagini all’informazione in ogni caso utile dei mass-media grazie ad alcune elaborazioni critiche e artistiche ritenute poco attraenti dai distributori. Il mio scopo è sempre stato quello, pur amando il nostro Paese, di creare le debite sinergie all’estero, di travalicare i confini nazionali, di raggiungere posti diversi. Per estendere le prospettive degli spettatori occorre cominciare allargando le proprie.

 

Ottenere il credito dalle banche spinge gli imprenditori e i commercialisti ad affidarsi a esperti capaci di accelerare il processo necessario per procurarsi le garanzie richieste. La contrattazione, già dura per chi produce beni materiali, diventa proibitiva. Com’è possibile pacificare ingerenze ed esigenze persuadendo i finanziatori in merito alla rimuneratività del film?

Non è affatto facile. Oggi meno che mai. Anche perché le priorità sono altre. Nei film e nei documentari realizzati dalla mia casa di produzione c’è una linea rossa che li attraversa. Individuabile nell’etica dell’informazione, nell’attitudine di rompere le scatole pur di andare in profondità scoprendo magagne nascoste, nel tenere al corrente il pubblico in un certo modo, coniugando aggiornamento ed elaborazione analitica, nel sottrarsi al diktat di scendere a compromessi. Sono i valori di cui non mi sento depositaria assoluta, ma sento di avere. E voglio perciò trasmettere attraverso le opere che produco. La rimuneratività dell’opera prodotta non è un fattore secondario. Ma va contemperata insieme alle necessità espressive. Siccome non mi va d’impiegare il tempo a casa per fare tagliatelle dalla mattina alla sera, anche perché non si trova il lievito, stiamo lanciando un instant doc per mostrare come gli italiani impieghino quel tempo libero che da scelta è divenuto un obbligo. Vorrei raccontare anche la storia di un rider ed esibire in termini concreti il significato del termine resilienza. Grazie al quale le avversità consentono alle persone di tirar fuori la parte migliore di se stesse. Reperire i soldi necessari a realizzare progetti di questo tipo, sia pure svalutati, almeno all’inizio, comporta fatica, intermediazioni tra gli autori dell’idea di base e i fornitori di capitale, caparbietà, chiarezza ed energia.

 

È meglio, quindi, rompere le scatole per tirar fuori la verità anziché pagare lo scotto alla noia restando in superficie?

Mi hai capito perfettamente: è meglio scegliere la strada più difficile, ma, allo stesso tempo, l’unica da seguire per fare le cose a modo proprio. Per informare ed emozionare gli spettatori. Senza fermarsi quindi in superficie. Come dici tu.

 

Gli eventi dedicati ai documentari permettono agli autori e ai produttori di trovare una via d’intesa efficace ed esaustiva?

La GA&A Productions punta proprio a questo. L’espansione del factual entertainment come macrogenere al servizio dell’impegno civile necessitava di un evento capace di contemperare mire artistiche ed esigenze pratiche.

 

Lo status d’autorialità è quindi ad appannaggio, oltre che dei registi e delle registe, anche di chi reperisce i capitali per fare un’opera audiovisiva di denuncia, di pensiero ed ergo di poesia?

Direi di sì, Massimiliano. Invece di andare in direzioni opposte, per realizzare un film in grado di trascendere gli obiettivi narcisistici, è meglio sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Fornendo così un servizio utile ed emozionante agli spettatori. Un film diviene in tal modo il risultato di una comunione d’intenti. Con un’impronta specifica ed eterogenea.

 

In viaggio con Cecilia è certamente un documentario d’autore perché riflette il punto di vista delle due registe, Cecilia Mangini e Mariangela Barbanente, sulla loro terra, la Puglia, senza cadere nell’impasse del divario generazionale bensì attingendo allo stream of consciousness di entrambe nell’humus della geografia emozionale. Qual è stata la ragione per cui il tragitto, conforme alla scoperta dell’alterità, è stato circoscritto a Taranto e Brindisi?

Cecilia (nella foto qui sotto insieme alla Barbanente, ndr) all’epoca aveva già ottantasei anni. Ed era la prima volta che tornava dietro la macchina da presa a distanza di tantissimo tempo. Quasi mezzo secolo. Non è stato semplice riuscirne ad amalgamare le idee, molto chiare e nette, con quelle, altrettanto ben definite, di una co-regista più giovane. Lo sforzo della produzione in questi casi, una volta reperiti i finanziamenti per passare dalla teoria alla prassi, consiste nel contemperare modi di girare e d’interpretare il cinema diversi. Che possono diventare una risorsa solo se gestiti con polso ed estrema cura dei particolari. Non è stato affatto facile conciliare tutti gli apporti tecnici. Ma l’esito conclusivo ci ha ripagato dell’impegno profuso a tale scopo. Desideriamo far scoprire ed emergere storie che animano il territorio, nel bene e nel male, ponendo in risalto, come sottolinei tu, i tratti distintivi della geografia emozionale.

 

L’ego degli autori vanesi, al pari dell’impasse delle inquadrature allettanti per gli attori ma deleterie per il valore evocativo della tecnica cinematografica, va dunque accantonato?

Nei documentari non c’è l’ausilio degli attori professionisti. E quindi il loro ego non risulta un intralcio alla riuscita. La vanità dei registi può costituire un problema. Ed è per questo che chi si occupa di produzione seguendo una linea precisa deve avere polso. Qualcosa di puramente edonistico la ritengo vana nella stessa misura. Si tratta di reperire una tematica singolare per il mercato, resa con un’immediatezza per cui il pubblico, che sia di Singapore o dell’Illinois, la recepisca senza bisogno di filtri ridondanti od orpelli inutili, e di accompagnarla passo dopo passo nelle varie fasi in giro per il mondo.

 

Essere cittadini del mondo non toglie nulla ai vincoli di suolo?

Non gli toglie nulla. Ho sempre l’Italia nel cuore. Di conseguenza cerco di tradurre in pratica progetti universali che riflettano però ansie, paure, attese ed emozioni palpabili nel nostro Paese. Basti pensare al Covid, all’urgenza di affrontarlo subito, di batterlo il prima possibile, di uscirne bene: ci riguarda da vicino. E riguarda pure i cinque angoli del pianeta.

 

So che Giulia De Luca è una giornalista appassionata delle questioni sociali imperanti in America Latina. La sua consulenza in Venezuela, la maledizione del petrolio è stata preziosa. Il mondo, con la pandemia che ci affligge, necessita d’informazione. Il valore di un documentario riflette l’etica dell’informazione?

Giulia (nella foto qui sotto, nda) ha fornito un supporto notevolissimo. Il giornalismo d’inchiesta è portatore di verità, di approfondimento ed etica. Gli aspetti legati all’esigenza di fornire l’opportuno peso informativo – svelando gli effetti nefasti dell’iperinflazione, degli efferati barrios, di Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente, dell’autocrate Leopoldo López, del coinvolgimento delle superpotenze, con la ricchezza petrolifera costretta a cedere alla miseria, rappresentata dalle tristi baraccopoli – tengono conto dello scambio di opinioni anche completamente opposte tra loro. Ma in grado di assicurare nerbo contenutistico all’etica dell’informazione.

 

Opinioni, Gioia, che recano l’aroma della sincerità e dell’idonea costruttività. Il pluralismo dei punti di vista è la chiave di volta?

Abbiamo contattato molteplici esperti. Ognuno ha palesato convincimenti piuttosto comprovati sulle accorate manifestazioni contro il regime, sulla svalutazione del petrolio, sulla penuria delle provviste essenziali ai supermarket, che costituisce l’incubo peggiore, argomentando con prontezza ed efficacia. La cifra stilistica del regista Emiliano Sacchetti, l’apporto della fotografia, il confronto dialettico, il principio del sano contradditorio tra le parti hanno fatto da battistrada per arrivare alla verità. Non bisogna avere paura della verità. La verità non può essere assoluta. Io pratico il dubbio.

 

Da critico cinematografico ho a cuore il destino dei film promossi dai festival ma bocciati dal mercato. Adesso intendo raccogliere le testimonianze degli eroi invisibili che lavorano per pochi soldi rischiando il contagio. Gary Sinise in Ransom – Il riscatto parlava di morlock risentiti ed eloy freddi. Pensi che i morlock invece buoni, senza livore nei confronti dei privilegiati eloy, siano una categoria, e un pubblico, in cerca d’autore?

Anche di una produzione. Che, visto la crescente difficoltà a reperire i fondi per finanziare un film, suda sette camicie. Non è semplice sostenere opere di particolare qualità culturale che fanno informazione ricavando linfa dall’estetica dell’immagine. Chi caccia i soldi, ci tiene al ritorno. Detto questo, dar voce agli eroi invisibili – con le misure sempre più severe in atto, con la limitazione della libertà, con i focolai nelle corsie di ospedale e con gli eserciti di semplici lavoratori per strada, gli eroi invisibili per l’appunto – è molto importante: merita uno sforzo serio. Bisogna però non abbassare mai la guardia né farsi scoraggiare. Ci sono tantissimi film che vanno benissimo all’estero ma in Italia non li vuole nessuno. L’accesso alla sala resta complicato. Se non proibitivo. Quello alla Rete Internet e alle piattaforme digitali ha dato via in pianta stabile a una specie di democratizzazione. Il problema è che anteporre i sottotitoli al doppiaggio non conviene. Oltre al contenuto, la forma riveste un ruolo di primo piano come elemento segnaletico. Esistono, comunque, sia film invisibili, degni di accedere al mercato tanto delle sale, quando riapriranno, quanto dell’home video, sia eroi invisibili. Degni di uscire dall’anonimato ed essere ringraziati sul serio. In merito al pubblico, di norma affezionato alla spettacolarizzazione priva dell’introspezione psicologica, esiste una nicchia che vuole informarsi ed emozionarsi. Persino, se non soprattutto, con i documentari sottotitolati.

 

Massimiliano Serriello