Il primo anno: un film sugli esami che non finiscono mai

Degli esami che non finiscono mai se n’era già egregiamente occupato in chiave metaforica ed empatica il compianto Eduardo De Filippo nell’omonima commedia teatrale. Designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI, in virtù della capacità di mettere in risalto gli alti e i bassi dell’arduo ed emblematico avvicinamento all’istruzione superiore, Il primo anno ha dei buoni momenti nelle sequenze che scandagliano le reazioni mimiche dell’immusonito studente Benjamin dinanzi ad attese tirate assai per le lunghe.

L’ambizione di rappresentare, tanto negli accenti descrittivi quanto nei semitoni poetici ed ergo rivelatori, uno spaccato dell’elitario mondo accademico, con le dinamiche tra docenti e discenti che cadenzano il peculiare sistema di rapporti umani al pari degli spunti d’ordine documentario rinvenibili nei fermi-immagine dell’incipit, segue l’esempio d’illustri predecessori.

Memore della previa fatica, Il medico di campagna, l’accorto regista transalpino Thomas Lilti continua ad adottare gli stilemi dei dramedy in grado di congiungere i toni gravi ad altri sottilmente parodici. Mentre la colonna sonora, con l’ammiccante canzone del prologo, smussa lo scoramento dovuto alla crudezza oggettiva dell’ambito pubblico, che investe il versante privato scuotendolo dalle fondamenta, lo stupore poetico, ad appannaggio dei capolavori capaci di sopperire alla prevedibilità d’ogni romanzo di formazione, risulta del tutto assente. Sorretta dal dinamismo dell’azione, composta dall’aria di fronda che prende piede nell’aula universitaria sotto gli occhi attoniti dei timidi di turno, la trama non va allo sbaraglio. Forte dell’energia narrativa necessaria a supplire all’assenza di un’intelligente aura meditabonda. Il turbinio dei corsi di pre-iscrizione alla facoltà di medicina di Parigi, che fa da sfondo alla vicenda in maniera piuttosto fuggevole ed esornativa, certifica l’egemonia degli interni sugli esterni. Al posto degli arcinoti tratti distintivi dei thriller, esclusi dalla penuria d’un autentico mistero, Lilti converte in oggetto d’analisi sociale le desuete ragioni d’insicurezza contemplate dai dotti ritrattisti intimi. L’incubo del numero chiuso, che esorta i partecipanti a studiare assieme per sconfiggere l’ansia da prestazione e gli effetti nefasti dell’isolamento, sebbene offra uno svago meno gradevole rispetto a Il medico di campagna, costeggia ugualmente l’assoluto valore terapeutico dell’umorismo. Il tenue inno alla caparbietà, accostabile alla molle acqua che buca la dura roccia, goccia dopo goccia, trae linfa da qualche corsa affannata, col cuore in gola, nei corridoi dell’edificio, dove si decideranno le sorti dei futuri dottori e degli eterni perdenti, ed echeggia alcuni classici riveriti sia dal pubblico sia dalla critica.

La strizzatina d’occhio, frammista agli acri ma preziosi confronti coi professori decisi ad allargare le prospettive offerte dall’età verde, benché non sconfigga l’inerzia delle idee prese in prestito, dona un po’ di dolcezza a un apologo sennò troppo amaro. La padronanza degli ambienti, per lo più al chiuso, l’attitudine in parecchi passaggi a trarre partito dai referti sociologici, per non convertire nell’infeconda enfasi l’opportuno carattere d’autenticità, e il gioco psicologico dei compositi sguardi, ora introversi, ora colmi di vitalistica euforia, compongono una piccola galleria di curiosi contesti. Meritevoli, però, di maggior approfondimento. L’impasse, invece, degli ulteriori motivi di fianco, appena sfiorati, col pretesto di anteporre un esame comportamentistico rigoroso ed essenziale alla vana spettacolarizzazione degli stati d’animo nascosti, finisce col procurare, persino, dei deleteri sbadigli. L’ingresso in scena delle ragazze pon pon, accolte con applausi scroscianti dall’allegra ciurma, scongiura il rischio di pagare definitivamente dazio alla noia di piombo. Il ricorso alle gag di alleggerimento, tuttavia, gira a vuoto. Giacché innescato dal bisogno di rimediare alla monotonia anziché dall’estro di connettere l’asprezza dei gesti al gusto d’un intreccio prodigo di sorprese. Stranianti e carezzevoli, a secondo dei casi. Il momento fatidico dell’ambìto test, sostenuto coi nervi tirati allo spasimo, innesca la necessità espressiva dei campi lunghi, comparando l’effigie dei banchi di metallo all’habitat inospitale delle parabole western, ed esaspera i tòpoi, dispiegati dapprincipio in filigrana, del paradosso surreale.

Le cospicue inquadrature di profilo, atte a cogliere la mestizia dei volti, lambiti da un alone funerario, e, di contro, i sorrisi sarcastici, conformi alle satire civili, aliene ai cascami dell’inane retorica, raggiungono, al contrario, il giusto equilibrio. Il fugace ripiego negli interludi panteisti, costituiti dai sentieri limitrofi, cerca invano di offrire nuovi spicchi d’interessante realtà lontana dall’interregno degli spazi claustrofobici. A dispetto delle insistite scene di massa, che stentano comunque ad aggiungere angoli prospettici degni di nota. L’introduzione conclusiva, alla resa dei conti, degli stanchi ma coriacei candidati, rivolti direttamente in macchina, manca del carattere d’ingegno creativo connesso ad accensioni fantastiche utili per andare oltre lo schematismo delle opere a tema. Nonostante l’impegno profuso nella scelta degli interpreti e il polso dimostrato nel dirigerli, deciso a mostrare il pessimismo che serpeggia nei luoghi dell’apprendimento, esacerbati dall’asprezza competitiva, l’involuto autore tende ad amplificarne i rintocchi malinconici dando, viceversa, all’impennata di speranza un flebile risalto. Che non inchioda l’attenzione degli spettatori sull’esempio degli onesti prodotti mainstream. Il primo anno, quindi, si ritrova così in zona Cesarini a prendere spunto dai cult sportivi, tipo Momenti di gloria, dopo aver preferito per l’intera durata della storia l’agghiacciante radiografia dell’aspettativa, venata di caustica irrisione, al posto del suo antidoto naturale. L’extrema ratio della solidarietà, fedele allo spirito di corpo, non valica, dunque, la soglia del mero mestiere ed esibisce delle logore punte emotive. Ormai smussate dal persistente pessimismo.

 

 

Massimiliano Serriello