I predatori: l’esordio registico di Pietro Castellitto

L’esordio in cabina di regìa dell’attore romano Pietro Castellitto, figlio del celebre Sergio, avviene all’insegna dell’esplicito diritto alla fantasia. Per trasfigurare nell’opera prima I predatori la crudezza oggettiva connessa all’incomunicabilità in seno a nuclei familiari agli antipodi.

Le composite tecniche di ripresa adottate, però, anziché dispensare a piene mani squarci d’inventiva capaci di conferire ai drammi sensazionalistici il valore aggiunto della sagacia faceta, palesano l’impasse delle provocazioni calcolate.

Pietro Castellitto nei panni del velleitario assistente universitario Federico – costretto a subire l’improntitudine del riverito professore, in procinto di dissotterrare il venerato filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, tagliando fuori l’introverso coadiutore dalla ristretta cerchia degli addetti alla bizzarra riesumazione – va a caccia di grilli. Senza l’ausilio della destrezza recitativa necessaria ad approfondirne l’intrinseco mix d’illusioni crudeli ed effetti di superficie. L’ausilio del montaggio alternato, volto a congiungere il piano-sequenza dell’incipit in chiave spettacolare, sull’esempio di Forrest Gump, con i timbri corali contemplati da Maestri della levatura di Robert Altman ed Ettore Scola, non basta a sopperire all’infecondo déjà-vu. Balza infatti agli occhi la voluttà di attingere all’altrui ingegno nella vana speranza di acquisire l’elezione ad autore con la “a” maiuscola. A fare da spia al vanesio obiettivo sono soprattutto i reiterati campi lunghi, che strizzano l’occhio agli stilemi western col rifugio panteistico d’una grezza famiglia di armieri privi d’istruzione, e il ricorso sistematico alle correzioni di fuoco.

Per dirigere lo sguardo degli spettatori verso l’incertezza dei sentimenti e l’ineluttabile miseria umana. Che emerge nel ritratto della madre di Federico. Una regista a corto d’estro, logorroica, distratta, aggressiva. Massimo Popolizio, a dispetto della consueta bravura, interpreta il ruolo del marito medico dedito all’infedeltà coniugale tralignando l’impeccabile misura dei semitoni in ammiccamento mimetico. Mentre l’intreccio narrativo che presiede alla relazione tra due classi sociali diametralmente opposte appaga il pubblico dai gusti semplici, spingendo l’ovvio pedale sarcastico a tavoletta nel tracciare l’esame comportamentistico dei trogloditi fedeli alla retorica dei puri ma duri, l’immediata evidenza degli accenti canzonatori, sovraccarichi di manierismi, lascia perplesse le platee meno ingenue. Il proposito dinamitardo di Federico, che si procura in gran segreto una bomba per anticipare i tempi stabiliti dall’arrogante luminare, innesca un’analisi critica svilita dall’invadente parte buffonesca. L’assurdo tentativo di emulare a colpi d’ariete ora l’estro surreale dell’inaccostabile Luis Buñuel ora i mordaci ed empatici ritratti collettivi concepiti da Paul Thomas Anderson, coniugando l’idoneo dinamismo dell’azione all’amaro scandaglio psicologico d’ascendenza bergmaniana, mette il carro davanti ai buoi.

Con il mesto risultato di anteporre l’inane cerebralismo, frutto inoltre d’idee prese in prestito, alla carica minacciosa della suspense. In grado d’impedire alla noia di prendere piede. L’affresco derisorio cede poi il passo alla dolcezza della pietas all’interno d’un racconto ormai troppo vincolato al fiele del dileggio. Una discutibile fonte di divertimento frammista alle superlue lentezze, contrabbandate per proficui interludi meditativi, all’esasperazione macchiettistica e al drastico cambio di rotta. Il vistoso sussulto di coscienza avvinghiato allo slow-motion – al fine di stabilire un compiuto rapporto di coalescenza con lo zotico che all’omicidio a sangue freddo onde occultare ogni legame all’ordigno esplosivo utilizzato da Federico preferisce rendere pan per focaccia all’autocrate zio – vorrebbe divenire oggetto di spettacolo e di riflessione. Invece, a fronte del pleonastico contravveleno riposto nell’inopinata tenerezza di coppia sottesa al fermo rifiuto di aderire ai diktat della violenza e dell’insulsa salvaguardia, il deleterio tasso di saccarosio delle soap-opere subentra alla nozione dell’oscenità che alberga anche nei quartieri alti. Il recupero in extremis degli intenti grotteschi, sacrificati prima sull’altare del buon cuore, agevola ancora le ragioni del cervello. E, complice l’incoerenza causata dall’accostamento di dilemmi sotterranei ed echi satirici, nuoce all’intero processo di stilizzazione. I predatori resta quindi un debutto al servizio dell’egemonia dell’apparenza sulla sostanza.

 

 

Massimiliano Serriello