Pieces of a woman: l’esordio a stelle e strisce per Kornél Mundruczó

L’interazione tra interni claustrofobici ed esterni panteisti si va ad amalgamare in Pieces of a woman al lacerante dramma della dipartita di una neonata pochi minuti dopo l’incauto parto casalingo.

Rispetto all’estroso horror spurio White God – Sinfonia per Hagen diretto sette anni fa, riuscendo ad appaiare la crudezza oggettiva degli alteri ed essenziali mélo familiari con la forza significante delle dark fantasy care a Tim Burton, l’abile regista ungherese Kornél Mundruczó mette meno carne al fuoco.

Disponibile su Netflix, il suo debutto nel cinema a stelle e strisce passa attraverso l’emblematica geografia emozionale, con la location in prestito di Montreal chiamata a interpretare l’algida Boston, afflitta dal gelido vento dell’inverno, e l’ardua elaborazione del lutto. Sulla falsariga di Kenneth Lonergan in Manchester by the sea. Tuttavia il riverbero degli stati d’animo, a corto di calore umano, appare in questo caso più programmatico. Mentre l’opportuno ricorso ad alcuni incisivi carrelli all’indietro contribuisce a cogliere sin dall’incipit i segni premonitori della tomba d’illusioni nutrite dall’incolto ma felice operaio edile Sean, impegnato nella costruzione di un ponte sopra il Charles River, lo scandaglio antropologico dell’intesa di coppia sconvolta dall’angoscia risulta risaputo. Gli scompensi calcolati nel ritmo narrativo d’inizio film, col party domestico giustapposto al tran tran giornaliero, vanno, a poco a poco, sotto pelle. Al contrario l’irrompere della tragedia, che tramuta il sogno in incubo, annunciato sottobanco dal movimento di macchina irregolare da destra a sinistra, innesca l’ineluttabilità del pugno allo stomaco. La convenzionale punteggiatura sonora extradiegetica cadenza l’improbo ritorno alla normalità dei previi incarichi. Al cantiere per lui, dove si staglia nelle statiche inquadrature l’indifferenza del teatro a cielo aperto. Alla scrivania per lei.

L’erudito lavoro di sottrazione dell’antiretorica è però contraddetto dall’enfasi di maniera che antepone al timbro antispettacolare ammiccanti giochi prospettici fini a se stessi. Mundruczó, che con White God – Sinfonia per Hagen aveva preso le debite distanze sia dalla suspense meditabonda di Robert Bresson in Au hasard Balthazar sia dall’ovvia bonomia di Fred McLeod Wilcox in Torna a casa, Lassie!, esibendo in chiave allegorica la voluttà di riscatto del negletto cane meticcio, stenta ad acquisire le virtù degli stilisti visivi. Il grado d’intensità dell’urlo di Sean, attanagliato dall’ormai cronica mancanza di comunicazione con l’attonita consorte Martha, tradisce l’inane proposito di toccare il cuore e riempire l’occhio. Per mezzo dei compiuti piani-sequenza frammisti ai velleitari effetti prospettici degli insistiti deep-focus. Che dovrebbero spingere l’attenzione del pubblico nell’urgenza d’impossibili ed empatiche risposte fuori dall’alienante appartamento. Perlustrato lungo i corridoi, nel salotto, nella mesta alcova, con lo slancio vitalistico dell’eros ridotto al lumicino, senza mai convertire appieno la composizione figurativa in approfondimento introspettivo. L’impronta che affiora malinconicamente sul finestrino dell’autobus rimanda in filigrana alla scarna ed eterea mano dell’intristita Diane Keaton in Interiors di Woody Allen. Ciò nonostante l’implicito inchino nei confronti dei maestri avvezzi ad analizzare il grigiore dell’esistenza, suggerendo l’indispensabile bagliore da scorgere per uscire dal tunnel, non incentiva affatto gli obiettivi grandangolari né l’insieme d’illuminazioni frontali e laterali.

Le mire intellettualistiche rinvenibili nella pretenziosa gamma cromatica concepita dalla pur avvertita fotografia, che si serve dell’indubbia capacità di scrivere con la luce per unire i contrasti chiaroscurali agli attriti affettivi, esacerbati dalla perdita, non sono quindi sufficienti a colmare l’impasse del déjà-vu. Le lastre di ghiaccio disseminate nell’impervio tragitto, in attesa dell’arrivo catartico della bella stagione, i baci fedifraghi al buio, nella discoteca di turno, la sofferta deposizione in tribunale, per inchiodare alle proprie responsabilità la sventata ostetrica, richiamano alla mente oltretutto modelli assai diversi gli uni dagli altri. Come Sotto accusa del mestierante, privo d’ingegno, Jonathan Kaplan, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera del compianto Kim Ki-duk ed Ema dell’arguto Pablo Larraín. L’apparente compattezza strutturale cela di conseguenza la penuria dell’acume genuino. Capace in White God – Sinfonia per Hagen di trascendere il colpo di gomito dei suggestivi preziosismi ed echeggiare la potenza dell’invisibile. Eletta ad antidoto contro gli schiaffi del destino e l’analfabetismo sentimentale. Pieces of a woman, viceversa, a dispetto dell’epidermica ispirazione di partenza dell’autore magiaro e della maiuscola prova di Vanessa Kirby (Martha), sostituisce in extremis l’aria d’ostilità, dovuta all’opprimente discredito, coi punti di grazia dell’ordine naturale delle cose. Trascinando così anche l’andamento riflessivo e l’elegiaca rievocazione dell’età verde nella deleteria indolenza delle buone intenzioni.

 

 

Massimiliano Serriello