Stitches – Un legame privato: l’input dell’antiretorica

A differenza di alcuni capolavori d’oltreoceano come Gente comune e Voglia di tenerezza, incentrati sulla capacità d’impreziosire le prospettive psicologiche dei sentimenti intimi con la medesima scioltezza dei film-fiume, Stitches – Un legame privato antepone all’ampio respiro narrativo l’input dell’antiretorica.

Sorvegliando i momenti di maggior commozione, per consentire al margine d’enigma connesso ai falsi certificati di morte dei neonati sottratti alle madri in Serbia negli anni dell’atroce inquietudine sociale di tenere sui carboni ardenti gli spettatori anziché spingerli a tirar fuori il fazzoletto in mezzo all’ennesimo tripudio di lacrime e sorrisi, l’abile regista Miroslav Terzić mette a frutto l’ottima sceneggiatura. Redatta dall’avveduta ed eclettica Teona Strugar Mitevska. Autrice a tutto tondo dell’originale e visionario dramedy Dio è donna e si chiama Petrunya.

Lo stile di ripresa questa volta sceglie, al posto dei crudi esami comportamentistici congiunti agli slanci immaginifici, il rigore dell’asciutto scandaglio introspettivo. Anche se l’analisi degli stati d’animo, dei dati antropologici ed etnologici, del potere, della sottomissione, delle gerarchie ribaltate dall’ansia di riscatto dello spirito femminile, preferito all’ineluttabilità della materia, aveva decisamente più frecce al suo arco, la suspense meditabonda coglie comunque nel segno. Sin dall’incipit. Le penombre domestiche, l’uso in filigrana dell’opportuno deep focus, la cura degli elementi ambientali non costeggiano slanci creativi, per veicolare lo sguardo del pubblico sulla spiazzante inversione tendenza dell’implacabile crudezza oggettiva ed entrare in empatia con un personaggio dapprincipio destinato all’oscuro eremo; bensì appartengono all’emblematico sottosuolo dei gesti nascosti. Sepolti nell’inconscio. Rimossi dalla coscienza collettiva. Sconfitti dal mostro della burocrazia. Ma ricordati pervicacemente dall’indefessa sarta Ana. A costo d’inasprire l’incomunicabilità con l’indispettita secondogenita Ivana. Gelosa di quel fratello maggiore ghermito negli eloquenti silenzi. Carichi di senso. L’arcano da svelare, passo per passo, senza concedere nulla ai coefficienti spettacolari dei thriller canonici, avvezzi a convertire l’aura mistery nei vani colpi di gomito del puzzle riempito sostituendo l’aria sospesa col sapore dell’intrigo, unisce alla nota desolante la coerenza dell’afflato etico.

L’egemonia dell’atmosfera disadorna ed evocativa sul crescendo degli shocker, che preferiscono toccare la vetta dell’iperbole con scene culminanti di sicuro effetto, comporta però il rischio di allentare la molla dell’ispirazione (l’autenticità dell’amore paterno di Terzić dà notevole nerbo ai semitoni) con le deleterie pieghe programmatiche dei pur sagaci chiaroscuri. Il governo degli spazi, sia all’aperto sia al chiuso, nell’autobus dove le occhiate furtive procurano brividi davvero inopinati, nei corridoi dei freddi uffici, alieni alle ragioni del cuore, nelle strade periferiche, nelle vie neglette, promosse da mero sfondo a cornice riflessiva dell’azione compiuta per sconfiggere l’immane frustrazione con le invisibili ma indefesse schegge d’amore, beneficia dell’assoluto aroma della sincerità. Le sequenze invece concernenti la protagonista alle prese con la macchina da cucire, ed ergo i fantasmi del passato congiunti all’ovvietà dell’ennesima metafora sull’alienazione, pagano dazio a uno scontato punto di convergenza tra dato concreto ed empito astratto assai meno avvertito. Ad alzare di nuovo il tiro provvede l’intelligenza esibita nella successiva sublimazione del reale. Lungi dal conferire allo smarrimento e al ritrovamento della speranza oppressa dai raggiri custoditi negli archivi di Stato l’ampollosità dell’apologo intellettuale.

È infatti il cuore a prevalere sugli ammiccamenti delle teste d’uovo. L’abbraccio di Ana con Ivana, pur arrivando al momento giusto, richiama alla mente il moto d’affetto di Jane Fonda per lo scorbutico patriarca in Sul lago dorato. Potrebbe non trattarsi di una semplice coincidenza o trasmissione di pensiero che dir si voglia. La poesia, viceversa, sostenuta dall’incisività dei primi piani, dal sibilo del vento, conforme all’ordine naturale delle cose, e dal valore aggiunto dell’intramontabile metonimia, cara al guru russo Sergej Michajlovič Ėjzenštejn per trovare il dono della sintesi nella singola parte in grado di racchiudere l’intero quadro, traduce con semplicità echi piuttosto complessi. Il contributo collaborativo della misuratissima Snežana Bogdanović (Ana) risulta perfettamente in linea col succo della storia. Piena di vibrazioni segrete. Chiusa da uno squarcio lirico, affidato allo schietto trasporto della musica diegetica, che cementa il sogno della piena comprensione. Stitches – Un legame privato non si limita quindi a denunciare l’ignominia compiuta ai danni della gente comune di Belgrado e del loro fulgido bisogno di tenerezza: affina i modi stringati dei mélo estranei tanto ai piagnistei quanto alle pose estetizzanti ed esprime i palpiti di un’attesa epidermica.

 

 

Massimiliano Serriello