Io rimango qui: sentimenti tormentati da un best seller di Frank Pape

La trasposizione cinematografica del best seller tedesco Gott, du kannst ein Arsch sein! (Dio puoi essere un asino!), scritto da Frank Pape nel ricordo della figlia sedicenne Steffi colpita da un impietoso tumore fulminante ma decisa a vivere appieno i suoi ultimi giorni, applica diversi schemi collaudati.

Il titolo italiano del film, Io rimango qui, che antepone l’audace testardaggine di una teenager scevra dall’autocompatimento all’aforisma ai limiti della blasfemia divenuto nondimeno il leitmotiv di tante altre malate terminali conquistate dal piglio dell’indomita adolescente, racchiude comunque a ogni latitudine l’esplicito filo conduttore.

Dispiegato seguendo gli stilemi dei cancer movie al femminile, tipo Fiori d’acciaio, degli apologhi giovanilistici sull’ineluttabilità del tempo concesso dal Creatore, come Colpa delle stelle, e del genere on the road. La geografia emozionale ivi congiunta col rapporto tra habitat ed esseri umani costituisce un antidoto all’esacerbazione ad arte dei sentimenti sull’esempio delle scaltre telenovele in grado d’inchiodare l’interesse del pubblico dalla lacrime facile? Certamente l’eclettico regista teutonico André Erkau, che già nei previi dramedy Happy burnout e Love is a piece of cake era riuscito ad appaiare contingenze spiritose ed empiti esistenziali, ha nelle proprie corde le soluzioni tecniche necessarie a uscire dall’impasse dei meri segni di ammicco. Lontano anni luce dai preziosismi stilistici dei colleghi avvezzi all’aura contemplativa, ed ergo alla razionalizzazione dell’assurdo insita nella poesia, l’incipit privilegia la suspense che, anticipando sul versante avventuroso il prosieguo della trama, crea il clima d’attesa giusto per gettare subito l’amo. Grazie all’immediatezza espressiva degli echi postmoderni, rinvenibili nel rimando tarantiniano all’odissea tragicomica, e al processo d’identificazione coi risvolti action. Alieni, nello slancio adrenalinico, al ricatto morale dell’affresco funereo.

Le pagine illustrative dell’ordinario cinema d’atmosfera tratteggiano invece i balli dell’età verde, in attesa della gita scolastica a Parigi, le punture di spillo ai genitori, esclusi dal divario generazionale, e lo spettacolo circense, rappresentato dal giro della morte eseguito nell’apposita sfera di ferro dall’immusonito motociclista Steve, pagando dazio al timbro troppo spiccio dei bozzetti di costume. Appena sfiorati dal valore aggiunto dell’analisi degli stati d’animo. I risultati dell’esame del sangue, viceversa, raggiungono il diapason. L’ineluttabile verdetto medico risulta infatti impreziosito dalle profonde reazioni mimiche di Sfeffi, dell’amorevole mamma, dello sbigottito padre. La cui fede nell’Altissimo, dapprincipio a prova di bomba, comincia a vacillare. L’inidonea superficialità trasmessa poi alle pieghe dei caratteri, nel momento di affrontare l’inevitabile trafila delle cure disposte solo ed esclusivamente ad alleviare l’agonia dell’irrequieta condannata, pregiudica al contrario il tuffo al cuore che in Voglia di tenerezza va davvero sottopelle. Declinata l’intenzione di trarre debitamente partito da alcuni comuni denominatori con gli illustri modelli, abilissimi ad amalgamare negli scandagli interiori di prim’ordine l’effigie del timor panico e il momento risolutivo della rassegnazione, Io rimango qui spinge sull’enfatico pedale di secondo piano dell’ammiccante temerarietà. L’insistito ricorso ai carrelli all’indietro, per assicurare ai territori tutti da scoprire l’ampio respiro degli appassionanti kolossal romantici alla Via col vento, l’uso analogo delle riprese aeree, i prevedibili zoom in avanti sui volti acerbi ma scossi di Steffi e David, in viaggio verso mete impreviste ed emblematiche, stentano a trasmettere l’estrema variabilità dei paesaggi narrativi. Quelli venutosi a creare nelle foreste dell’Ostwestfalen e nei programmatici strapiombi sugli abissi, dove dar fiato alle trombe sulla scorta dei brividi dell’affetto sincero, talora persino urticante, restano sullo sfondo.

Senza contribuire in modo determinante ad afferrare l’incantesimo dell’ordine naturale delle cose rispetto alla prassi dell’infeconda pietà. Gli sconfinamenti in albergo, nella vasca da bagno, sul letto, per lenire le ferite provocate dagli scontri fortuiti lungo il tragitto, serbano poche sorprese. Mentre il montaggio alternato supera l’intoppo dell’intervallo manieristico, conferendo all’eterogenea complicità delle due coppie arguti mutamenti di prospettiva, conformi ai romanzi di formazione, la densità contenutistica delle scelte luministiche vacilla: l’inane dinamica figurativa, anziché affiancare agli sberleffi al cupio dissolvi la forza significante del ritratto in chiaroscuro, rischiarato dal richiamo dei sensi, s’accuccia nella visione a tinta unica. Priva della ricchezza di sfumature capace di trascendere i volteggi da luna park, l’utopia dell’ariosa cornice e l’ovvio ripiego delle rocambolesche soste fuori programma. La vena comunicativa dell’intero cast, con Til Schweiger che passa con i medesimi, eloquenti, silenzi dai panni dell’algido ed efferato Hugo Stiglitz di Bastardi senza gloria alle vesti dimesse del credente Frank in crisi, non basta ad accorpare alla pittoresca verità di accenti l’intima sostanza dei semitoni. Io rimango qui strappa perciò qualche franca risata, in determinati inserti opportunamente sarcastici, nasconde dietro le occasioni di spasso l’incubo dell’attanagliante fine ed esorcizza lo sgomento con l’inno al coraggio. Lasciando nell’ombra il brivido che gela, l’accordo che infervora e lo stupore fiabesco che sgomina la paura sepolcrale dell’abisso.

 

 

Massimiliano Serriello