Encanto: un Disney da premio Oscar

E se fosse la volta buona che – dopo la nomination degli antesignani tornati a casa con le pive nel sacco (La bella e la bestia di Gary Trousdale e Kirk Wise, Up di Pete Docter e Bob Peterson, Toy story 3 – La grande fuga di Lee Unkrich) – un film d’animazione vince il premio più ambìto, vale a dire l’Oscar come miglior film, soffiandolo ai film con gli attori in carne ed ossa diretti da registi provvisti d’incisive tecniche di ripresa?

Encanto ha le qualità per entrare in tal modo nella storia, se non altro in quella del cinema (mica briscole)? Queste qualità, inoltre, rientrano nella scaltrezza delle opere commerciali, volte ad anteporre la furbizia di corrispondere alle aspettative delle masse allergiche ai dispendi di fosforo, o abbracciano gli stilemi culturali ed etici dei film d’arte, sia pure trasferiti nei procedimenti figurativi dei cartoon movie, distinguendosi dalle pellicole di scarso livello culturale?

Encanto, tanto per cominciare, ha tutte le carte in regola per piacere a grandi e piccini. Per risvegliare la celebre voce del Fanciullino di pascoliana memoria al pubblico sin troppo avvertito, abituato a privilegiare il cervello al cuore, e per spingere, viceversa, l’emotività degli spettatori con la goccia al naso ad abbeverarsi alla sorgente dell’estetica cinematografica. Ravvisabile nella forma fantasmagorica, nella matrice iconica, nella gamma cromatica, nelle sfumature di colore, nell’alterazione connessa al turbinio degli stati d’animo, nelle magiche trasparenze, nell’immaterialità, emblema dell’egemonia dello spirito sulla materia, nelle prospettive aeree, nell’effigie del villaggio, nei paesaggi riflessivi, negli arredi connessi ai palpiti, nei modi espressivi legati a doppio filo ai fattori visivi. Ottenuti con un notevole dispendio di mezzi finanziari. Con la qualità assicurata dall’operazione in grande stile. Nel considerevole sforzo produttivo per riuscire a contemperare diktat finanziari e mire artistiche. L’assenza della manualità dei disegni ad acquarello del maestro nipponico Hayao Miyazaki, che senza l’ausilio del costoso radicalismo mimetico e tecnico impreziosisce il messaggio animato dalla fragranza dei colori genuini con una vasta gamma d’input intellettuali ed empatici, non sembra comunque nuocere a Encanto. Non è necessariamente vero quanto asseriva Alberto Moravia sulle pagine del settimanale L’Espresso che i film commerciali non possono raggiungere neanche a furia di miliardi la poesia agguantata dai film d’autore con pochi soldi di budget e tante idee da tirar fuori. Dietro i coefficienti spettacolari che riempiono l’occhio, che tengono sui carboni ardenti, all’erta, tutti gli spettatori, grandi e piccoli, colti e incolti, non prendono piede solo ed esclusivamente i frizzi, i lazzi, i capitomboli, i balli in chiave musical, gli svolazzi della fantasia riposta nella galleria dei diversi personaggi, dalla nerboruta ed erculea Luisa Madregal alla vanitosa ed eterea Isabela Madrigal, dalla coriacea e sensibile Mirabel Madrigal al preveggente e reietto Bruno Madrigal, dall’algida e ieratica nonna Alma Madrigal alla dolcissima mamma Julieta Madrigal, ma affiorano altresì sul piano della penetrazione psicologica degli scorci panteistici piuttosto emblematici.

Certo privi della geografia emozionale approfondita in chiave introspettiva ed ecologista dagli affiatati Jean-François Laguionie e Xavier Picard nel bellissimo film d’animazione Il viaggio del principe. Con l’illusione dell’avventura alle soglie dell’esotico in grado di scandagliare appieno gli elementi ambientali, l’interazione tra interni ed esterni, la funzione narrativa dell’habitat segreto, annidato in cima ad alberi millenari, il dono della scienza, la disdetta del pregiudizio, l’alterigia dei falsi accademici, la sete di sapere dell’infanzia stimolata dalla fantasia, le sembianze dei primati accostati ai connotati obiettivi dell’intuizione, dell’eleganza, dello charme, degli sguardi stralunati ed eminentemente umani. Carichi di sentimento. Tuttavia, al riparo dalle prevedibili dinamiche della tragicommedia, con Mirabel relegata nella condizione di loser per essere l’unica in famiglia priva dei poteri incantatori assicurati dai valori custoditi nei riti solenni della severa capostipite, il pathos delle speranze infrante trascende gli spiritosi ma risaputi numeri musicali. Che non offrono nulla di particolarmente diverso rispetto alla dinamica della messa in scena di altri film d’animazione coi fiocchi sotto l’aspetto esteriore e inerti per quanto concerne la ricchezza dei contenuti. In Encanto non c’è comunque la gelatina della cornice senza ritratto. La polpa, la sostanza, la forza significante del quadro, ed ergo dei contenuti, non tradisce, infatti, alcun momento d’affanno. Basti pensare al rituale stregato che bocciò Mirabel – a differenza di chi possiede un udito straordinario, chi parla con gli animali tipo San Francesco, chi ha abilità trasformistiche sorprendenti ed esilaranti, chi cura qualsivoglia ferita, tranne quelle dell’anima, chi disegna a piacimento un creato all’insegna del tripudio floreale, chi in cucina prepara, come i migliori angeli del focolare, delle deliziose pietanze capaci oltretutto di guarire il malumore – per rendersi conto di come la brevità dell’orizzonte dell’opera meramente commerciale, e priva quindi d’estro, ceda spazio a un’intelaiatura antropologica ed etnografica più dettagliata.

Forse non al punto da gridare al capolavoro. Come legittimamente favorito dalla scrittura per immagini del disegno che allarga le prospettive standard ne Il viaggio del principe. Come pure ne La città incantata, ne Il mio vicino Totoro, in Principessa Mononoke, in Ponyo sulla scogliera dell’instancabile Miyazaki. Tuttavia nell’azzardo di accostare il pudore, la solennità, l’attenzione ai dettagli degli affreschi antiretorici, fedeli alla pregnanza dei semplici semitoni, insieme agli accenti, ai canti, ai balli, ai voli della fantasia, ai bruschi atterraggi, stabiliti dalla fine dell’incantesimo, risiede qualcosa di ben differente dell’infecondo cerchiobottismo. Lo dimostra il prosieguo della trama. Quando i nodi vengono al pettine. In tal senso bisogna lodare l’arguzia e la sensibilità del team di sceneggiatori capitanato da Jared Bush – con Charise Castro Smith e il compositore nonché paroliere Lin-Manuel pronti a riallacciarsi in fase di scrittura ai tocchi mesti ed elegiaci legati ai tocchi spassosi graditi pure ai pigri spettatori corti di comprendonio – per averci consegnato un pacchetto alieno all’ovvia morale della favola. La crescita della protagonista, il suo dolore, la generosità, la sana irriverenza, il piglio da leader nel momento del bisogno, applaudito dalla nonna pentita, dà l’acqua della vita al viaggio indietro nel tempo. Alla ricerca di quel balenio smarrito strada facendo che non paga lo scotto alle sterili modalità esplicative. Bensì trasmette brividi profondi, indaga nel mito dell’attaccamento alla terra, fruga sotto la pelle dell’innamoramento tattile, snuda l’involuzione d’un cuore che diventa di pietra, stimola l’accorata riflessione, cementa la natura dell’ispirazione che esibisce la metamorfosi, suggellata dalla mutua solidarietà degli abitanti del villaggio privi di potere ma operosi e servizievoli, sulla scorta del dinamismo dell’azione. Che Jared Bush, dirigendo l’intera orchestrazione multiforme in tandem con l’abilissimo animatore Byron Howard, tira a lucido. Pronta per l’Oscar. Sarebbe anche ora. Good luck, Encanto.

 

 

Massimiliano Serriello