M3gan: una donna robot per amica

La tematica del divertimento e della tecnologia che nel terzo millennio sembrano andare di pari passo fondendosi anche in ambito infantile sotto forma di innocui giocattoli viene affrontata nel thriller futuristico M3gan, produzione del prolifico Jason Blum in associazione con James Wan, quest’ultimo autore anche del soggetto insieme ad Akela Cooper (Malignant).

Diretto da Gerard Johnstone, il lungometraggio vede protagonista la brillante robotica in carriera Gemma (Allison Williams), la quale sta elaborando insieme al proprio gruppo di lavoro un nuovo sistema cibernetico capace di assumere le fattezze di una bambina intelligente.

Lei è, appunto, M3gan, androide che può diventare la tua migliore amica e che Gemma, per perfezionarla, decide di abbinare alla nipote Cody (Violet McGraw), reduce da una tragedia automobilistica che ha visto morire sia il padre che la madre. Ma, sebbene l’invenzione si riveli essere qualcosa di rivoluzionario, ben presto manifesta emozioni inaspettate, trasformandosi in una pericolosa diabolica presenza.

Quindi, soltanto tre anni dopo il mediocre remake datato 2019 de La bambola assassina, in cui l’originale pupazzo Chucky veniva sostituito da un micidiale bambolotto robotico senza un minimo di approccio credibile al contesto raccontato, M3gan propone un’idea analoga ricreando almeno un contesto adatto alle idee futuristiche che lo supportano, ma ciò che non funziona nell’opera di Johnstone è lo sviluppo sbrigativo e sconclusionato che trasporta il racconto da sottile fantascienza a film horror.

Già l’idea alla base del tutto è un qualcosa che diverse volte è stata proposta in maniera più convincente, soprattutto se pensiamo a Il mondo dei robot di Michael Crichton, poi M3gan tende a sviluppare il rapporto tra la Gemma e la piccola Cody, non riuscendo ad affondare sul pedale della cattiveria quando serve e credendo di poter giostrare la sua esile storia tramite elementari giochi di tensione.

Inizialmente sembra voler sviluppare il discorso iniziato dal Paul Verhoeven di Robocop, ma il resto si perde in chiacchiere con evidente desiderio di chiudere l’argomento senza troppi raccapriccianti fronzoli; a conti fatti, dunque, a rimanere nella memoria sono soltanto il design inquietante della bambola protagonista e qualche momento inaspettatamente cinico (la sequenza nel bosco e quella dell’ascensore) in un insieme inutilmente tirato per le lunghe e che crede di potersi limitare a dispensare qualche momento da balzo sulla sedia.

 

 

Mirko Lomuscio