Il banchiere anarchico: Giulio Base porta al cinema Fernando Pessoa

Ingessato in abiti e acconciatura eleganti, un ricco e autorevole banchiere (Giulio Base) festeggia il compleanno nella sua lussuosa dimora. Con lui, un solo commensale (Paolo Fosso) che, domanda dopo domanda, costringe il padrone di casa a dialogare della propria vita, dell’ascesa nel mondo della finanza e del suo essere anarchico.

Il dialogo, surreale, è tutto ciò che occupa la scena in bianco e nero de Il banchiere anarchico di Giulio Base, che, in veste di regista, sceneggiatore e attore, si fa ispirare dall’omonimo racconto scritto da Fernando Pessoa nel 1922.

Più che opera cinematografica, quella di Giulio Base sembra una straordinaria pièce teatrale. Due caratteristi che recitano in maniera ora alienante, ora infervorata e, sicuramente, esemplare, una scena essenziale nel suo essere fatta di pochi e scarni elementi.

Un vortice di luci e ombre che scandiscono alla perfezione emozioni e stati d’animo e nessuna connotazione temporale certa. I personaggi potrebbero essere nel passato, nel presente o in un lontano e vicino futuro. Eppure la loro conversazione, in ottanta minuti, porta alla ribalta temi profondamente attuali. Quelli del denaro, del potere, dell’egoismo, della libertà e, ovviamente, dell’anarchia.

Come in un dialogo filosofico che procede per ragionamenti rivolti a una dimostrazione finale, il banchiere-Base vuole dimostrare di non essere stato un anarchico, ma di esserlo ancora.

Vuole affermare il fallimento di ceto sociale. Vuole urlare dell’egoismo che è un istinto primario dell’uomo.

Eppure, nella sua voce e in quella del suo unico interlocutore, non c’è nulla che spinga a pensare ad un giudizio morale. Si intravede, piuttosto, la voglia del regista di sviscerare, portandole sotto i riflettori, questioni di interesse universale.

Base riprende fedelmente Pessoa e, nel rileggere la sua opera, ne scava i lati più visceralmente contemporanei. Lo fa costruendo ne Il banchiere anarchico pezzo dopo pezzo, parola dopo parola e, con grande maestria, un’opera colta, a tratti straniante, provocatoria e, certo, non adatta ad un pubblico di massa.

 

 

Valeria Gaetano