Senza lasciare traccia: un padre, una figlia e la natura incontaminata

Un padre. Una figlia. La loro insolita vita all’interno di un bosco, lontani da tutto e da tutti. Seppur alquanto strano, il loro mondo sembra perfetto così. Eppure, ciò alle autorità non piace. Una storia singolare, quella messa in scena dalla scrittrice e regista Debra Granik, la quale, ispirandosi liberamente al romanzo My abandonment di Peter Rock, realizza il lungometraggio Senza lasciare traccia, presentato all’interno della Quinzaine al Festival di Cannes 2018.

Una storia, quella di un padre e di una figlia (interpretati dagli ottimi Ben Foster e Thomasine McKenzie), appunto, che, mettendo in scena una situazione al limite del paradosso, si fa metafora della crescita, della fine dell’infanzia e dell’abbandono del cosiddetto “nido materno”. Con tutte le difficoltà e i naturali dolori che tal cosa può provocare.

Una storia universale e delicata, dunque. Una storia che, per oltre la metà dell’intero lavoro, sembra funzionare e scorrere senza particolari intoppi, ma che finisce inevitabilmente per presentare non pochi buchi di sceneggiatura nel mettere in scena questo complesso rapporto tra padre e figlia e questi delicati equilibri costituitisi (primo fra tutti, il background – solo vagamente accennato, ma mai approfondito – del padre della ragazza, il quale, per ragioni a noi sconosciute, sente il continuo bisogno di vivere isolato dal resto del mondo).

Se particolarmente toccante è il momento in cui vediamo padre e figlia intraprendere due strade diverse, poco siamo coinvolti dall’intero contesto, in cui, proprio a causa dei citati problemi di sceneggiatura, perde pericolosamente di mordente, finendo per risultare, a tratti, addirittura eccessivamente pretestuoso.

Quindi, se con un lavoro come Un gelido inverno (2010) la regista era riuscita a raccogliere non pochi consensi da parte sia di pubblico che di critica, in Senza lasciare traccia sembra aver effettuato un passo indietro, lanciatissima nel voler raccontare qualcosa di importante, ma talmente concentrata nei propri intenti da perdere di vista dettagli necessari a una buona resa finale.

 

 

Marina Pavido