Glass: il buono, il brutto, il supercattivo

Prima dell’esplosione di cinecomic nell’ambito della Settima arte d’inizio terzo millennio, tra produzioni Marvel e DC, il regista M.Night Shyamalan, in seguito al successo ottenuto con The sixth sense – Il sesto senso, confezionò nel 2000 un titolo volto ad analizzare la passione che si annida dietro ogni cultore del regno dei fumetti, una parabola sull’essere eroi in un mondo reale: Unbreakable – Il predestinato.

Con Bruce Willis e Samuel L. Jackson a presenziare in qualità di protagonisti, un trattato filmico che fu una vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti di tutto quello che riguarda la creazione dei disegni forniti di nuvolette, ponendo i concetti di buono e cattivo dinanzi ad una equazione esistenziale.

A sedici anni da quella pellicola, Shyamalan è tornato sull’argomento con il thriller psicologico Split, in cui un James McAvoy  volenteroso ha vestito i panni di un pericoloso individuo dalle multiple personalità, fino a sfociare nella reincarnazione di un vero e proprio uomo bestia.

Un film al cui termine è stato inserito un riferimento a Unbreakable – Il predestinato, generando un’attesa spropositata nei confronti di quello che si rivela ora Glass, cross over che mette faccia a faccia i personaggi interpretati da Willis, Jackson e McAvoy, orientandoli verso una autentica resa dei conti.

Tutto ha inizio quando l’eroico David Dunn (Willis), il pericoloso Kevin Wendell Crumb (McAvoy) e il cosiddetto “uomo di vetro” Elijah Price (Jackson) vengono catturati e rinchiusi in una clinica psichiatrica specializzata in persone affette da sindrome da eroi.

Ad averli in cura è la determinata dottoressa Ellie Staple (Sarah Paulson), la quale cerca in ogni modo di convincere i tre che le loro doti non sono per nulla speciali, ma solo fonte di determinati disturbi psicologici. Una teoria che potrebbe essere portatrice della verità; mentre qualcuno, però, trama nell’ombra con la sola intenzione di rivelare al mondo intero che qualcosa di incontrollabile vive tra le persone, inconsapevoli di ciò che David, Kevin e Elijah sono capaci di fare.

Imprevedibile Shyamalan, capace di sviare ogni logica del suo cinema e della propria narrativa. Glass è il tipo di prodotto sentito e a lungo studiato, come è intuibile dalla cura con cui prende a cuore le analisi dualistiche tra i suoi protagonisti (un Willis calibrato nell’impassibilità, un McAvoy emotivamente multiforme che tende a primeggiare, un imparruccato Jackson dalla presenza luciferina) per metterle in un racconto che afferra alla gola lo spettatore fotogramma dopo fotogramma,  accompagnandolo in una lunga (psic)analisi di cosa significhi oggi credere nei fumetti.

Glass è una fantasiosa fuga mentale ancorata alla nostra società, capace di divenire un’allegoria su cosa è possibile ottenere  con la creatività e cosa siamo capaci di fare se crediamo fortemente nelle nostre “magnifiche” qualità.

Per arrivare a tanto Shyamalan azzarda una narrazione lenta, si concentra sui destini incrociati del suo trio e su chi gli è accanto (il figlio di David, interpretato da Spencer Treat Clarke, la ex vittima di Kevin, con il volto di Anya Taylor-Joy, la madre di Elijah, ovvero Charlayne Woodard), introducendo anche una glaciale Paulson.

Grazie ad una grande finezza di scrittura, poi, scopre le carte, conducendo Glass verso un obiettivo preciso che vale l’intera visione nel chiarire come i veri super cattivi non siano quelli che vivono nei fumetti, bensì coloro che abitano nel mondo reale, sempre intenzionati ad uccidere la fantasia.

Ancora una volta, quindi, il cineasta di origini indiane si mostra in grado di riservare un esaltante colpo di coda.

 

 

Mirko Lomuscio