Diabolik: il Re del terrore secondo i Manetti Bros

Il re del terrore è il titolo del primo albo della serie a fumetti Diabolik pubblicata dalla casa editrice milanese Astorina. Per i Manetti Bros – passati nel corso dell’ormai lunga carriera dallo status di registi underground con pochi mezzi a disposizione ma molte idee da tirar fuori per rinverdire il vetusto rapporto tra immagine e immaginazione alla promozione sul campo coi film ad alto budget – la sfida consiste nel mettere il proprio sigillo stilistico sulle vicende a sfondo noir del geniale ladro.

Entrato a pieno merito nell’immaginario collettivo per il look, con la calzamaglia nera sul volto da cui fuoriesce solo lo sguardo di ghiaccio esibito dai lampeggianti occhi cerulei, per la sfida all’autorità costituita, ritenuta dai seguaci del livellamento egualitario il prodromo della fantasia al potere, per l’assoluta virtù di congiungere lo scandaglio sociale all’ampio margine d’enigma del genere giallo nonché la verità immaginifica alla sconcertante verità dei fatti di cronaca balzati all’attenzione pubblica all’inizio degli anni Sessanta.

Il sigillo stilistico dei registi eletti ad autori con la “a” maiuscola consiste nell’adattare l’assunto narrativo al proprio specifico modo di filmare e non viceversa. Per Robert Bresson l’Ubi Maior Minor Cessat era rappresentato dal lavoro di sottrazione. Nella consapevolezza che togliendo il superfluo, le ridondanze, i segni d’ammicco, i colpi di gomito, l’economia della forma consente ai contenuti di eludere i poeticismi. E razionalizzare l’assurdo. Trascendendo la mera logica. Il calcolo. Come conviene alla poesia. Sergio Leone, al contrario, riusciva ad accrescere gli spazi infiniti ed empatici dell’immaginario aggiungendo. Invece di sottrarre. Per convertire l’esperienza maturata nell’età verde lungo gli scalini di Viale Glorioso nel Nuovo Mondo. In America. Ora quali sono le priorità dei Manetti Bros. nel “loro” Diabolik? Che influenza esercita in tal senso la produzione di RAI Cinema? La remuneratività del film – con i due sequel già pronti a partire sulla scorta della strategia di riduzione del rischio concepita dagli esperti di marketing per mezzo tanto della serializzazione del prodotto, estraneo quindi all’autonomia d’estro delle opere realmente d’autore, quanto dello sfruttamento dei best seller, con Diabolik iscrivibile a pieno merito tra i vertici della letteratura fumettistica, a braccetto col richiamo piuttosto frivolo eppure efficace dello star system autoctono – taglia la testa al toro e buonanotte ai suonatori? O RAI Cinema intende sul serio sostenere la qualità, il pregio culturale, l’autorialità riuscendo così ad appaiare al meglio diktat commerciali ed empiti artistici? Non ci vuole certo Sherlock Holmes per fornire delle risposte ampie ed esaustive a queste domande: la visione del Diabolik filmato dai Manetti Bros e prodotto da Rai Cinema parla chiaro. Lontano dalla selva di metafore che da critico cinematografico attento alla scrittura per immagini e ai sottotesti Alberto Moravia individuava nei film di particolare pregio culturale.

È dall’albo numero 3 del celebre fumetto, L’arresto di Diabolik, che la copiosa squadra di scenografi, truccatori, costumisti, direttori della fotografia, stuntman, sceneggiatori, compositori musicali ed esperti degli effetti speciali visivi e sonori trae partito per consentire all’adattamento in questione di catturare l’attenzione del pubblico. Sia quello dai gusti semplici. Allergico ai dispendi di fosforo. Sia le platee dal palato fine. Attratte dalle doti creative degli autori. Ed ergo sospettose nei confronti dei valori figurativi garantiti dalla capacità di scrivere con la luce della fotografia. Che, senza il controllo di autori fedeli alla loro cifra stilistica, traligna in mera suggestione. E quindi in un infecondo colpo di gomito. Il colpo d’ala del carattere d’ingegno creativo ha davvero qualcosa a che fare con le aggiunte apportate dai Manetti? La celebre Jaguar E-type, per cui i seguaci dell’iniqua egemonia della materia sullo spirito vanno in brodo di giuggiole, assente ne L’arresto di Diabolik, è assai presente nel film per cui alcuni critici di parte gridano già al capolavoro. Con buona pace dell’austero ed erudito lavoro di sottrazione. Manca il mistero. E di conseguenza l’assenza concreta del labirinto d’ipotesi, d’incanto noir, dell’intenso gesto d’amore che trasforma il ladro di nero vestito in un trepidante Romeo dinanzi all’anima gemella, costituita dalla sensuale ed eterea Eva Kant, costringe gli involuti autori a ripiegare su un’altra interpolazione tutto fumo e niente arrosto. Il rifugio di Diabolik, sebbene frutto dell’alacre scenografa Noemi Marchica, non aggiunge nulla al noto gioco di specchi, alle angolazioni attraverso il bicchiere, attinta ad Alfred Hitchcock nella commedia del periodo muto Tabarin di lusso, ai plagi camuffati di omaggi dei ben più compiuti Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, con gli sguardi in profondità agganciati alla dinamica in campo-controcampo degli specchi onnipresenti (altro che la Jaguar: al confronto dell’implicita fiera della vanità pare una semplice comparsa), e Basic instinct di Paul Verhoeven.

Tuttavia il Ghiaccio bollente di Hitchcock, che Miriam Leone raccoglie in eredità grazie all’affinità elettiva degli occhi color diamante e all’indubbia avvenenza unita alla supercoscienza del ruolo affidatole dall’Eva Kant disegnata sul modello della divina Grace Kelly, non si scoglie quasi mai. S’intravede qualcosa nell’ostentata disinvoltura adottata mandando a carte quarantotto la forza significante d’idonee sfumature ed emblematici semitoni quando la Kant – vedova d’un facoltoso diplomatico sudafricano che tiene sulle spine il vice-ministro della Giustizia in calore per lei e dedito al ricatto ed emana lo charme delle commedie sofisticate a scuola di criminalità – apprende dal giornale la notizia dell’arresto dell’amato Diabolik. Lì Miriam Leone recupera un barlume della dolcezza, della fragilità, dell’autenticità che seppe snudare, insieme al corpo là sul serio mozzafiato e non dedito al ricalco, nel dramma politico per la televisione 1992. Peccato che a lungo andare il femminismo e la superficialità prevalgano sulla femminilità e sulla profondità. A dispetto della rilettura sottobanco del thriller psicologico di Jonathan Demme. Luca Marinelli, decisamente fuori ruolo, fa rimpiangere, e anche di brutto, John Phillip Law nel Diabolik firmato nel 1968 dal compianto maestro Mario Bava. Deludendo le sorelle Angela e Luciana Giussani, fumettiste ed editrici, che crearono Diabolik, con l’egemonia della vena kitch sulla dimensione chic. Valerio Mastandrea, piuttosto in imbarazzo nei panni dell’ispettore Ginko che non riesce a catturare Diabolik, anche se gli sta costantemente alle costole, innescando lo spirito di rivalsa a beneficio dei sequel dall’appeal anti-autoriale, non arriva neanche alla caviglia di Michel Piccoli nel Diabolik di Bava. Consapevole che il mix d’identikit da svelare ed effusioni amorose nel mare di soldi alla Paperon de’ Paperoni era perfetto per unire l’apologo sulla solitudine, sull’edonismo, sul cosmopolitismo, sui punti di convergenza e attrazione (nero/bionda) alle punture di spillo dell’ironia.

Nel Diabolik dei Manetti, orfani del talento con cui avevano coniugato negli ispirati film dell’età verde la geografia emozionale delle location elette ad attanti narrativi alla sagacia canzonatoria, lo scacco dell’umorismo involontario travolge l’intero amabaradan: l’uso scolastico dello split screen finale, distante anni luce dall’autorevolezza sul medesimo humus di Lars von Trier, le modalità esplicative delle canzoni, l’effigie cartolinesca dell’habitat, da Clerville a Ghefn, i diamanti, l’oro, le banche, le maschere in lattice, i trasformismi vari, i gadget e l’inseparabile coltello come unico strumento per dare la morte. Lo scopo superficiale di mettere in cantiere l’asfalto che si apre dalla strada dando il benservito alla polizia a caccia di Diabolik fa un buco nell’acqua. Idem il chiodo fisso di rendere omaggio all’unica donna della letteratura che salva il suo uomo e non viceversa. La ricerca filologica di questo Diabolik diviene fatua; quella appaiata da Giancarlo Soldi all’ispirazione della scoperta dell’apparente alterità, che chiude il cerchio, nel documentario Diabolik sono io è tutta polpa. Come direbbe il giornalista sportivo Franco Zuccalà. Alla nostalgia degli anni Sessanta, dietro la quale si annidano i nani sulle spalle dei giganti, il timbro d’autore replica con ironia ed estro. Viva Diabolik, sì. Ma quello delle sorelle Giussani, però, e dei degni seguaci scevri dall’accidia malcelata dei nostalgici pieni di soldi ma a corto d’idee.

 

 

Massimiliano Serriello