Full time – Al cento per cento: la Laure Calamy di Éric Gravel

Il concetto della corsa, dell’adrenalina sprigionata a costo della salute delle coronarie in virtù degli appuntamenti onorati obtorto collo al fotofinish, per il rotto della cuffia, non riguarda solo ed esclusivamente gli action movie magari superficiali ma gradevoli o se non altro distensivi. Bensì rientra, almeno talvolta, nei parametri del controverso seppur affascinanti del cinema d’autore.

Full time – Al cento per cento è senz’alcun dubbio uno di quei casi. Per chi recensisce il film non si tratta, chiaramente, di stabilire se costituisce una best o una bad practice, in quanto l’impressionismo soggettivo regna sovrano (per fare un esempio: i film contemplativi sulla guerra tipo La sottile linea rossa di Terrence Malick agli occhi dei cinefili improvvisati risultano una barba o uno spasso a secondo dei casi).

Tuttavia è interessante cercare di capire se in cabina di regia la corsa contro il tempo della protagonista sia particolarmente sentita, ed ergo frutto di una conoscenza intima da parte del direttore della fotografia Éric Gravel cimentatosi nella scrittura per immagini dietro la macchina da presa, o se al professionista avvezzo ad appaiare valori figurativi e valori introspettivi preme più che altro congiungere superficialmente l’aura contemplativa all’andatura affannosa ed empatica delle opere mainstream. Nel secondo caso si tratterebbe di furbizia. Al fine d’inchiodare l’attenzione degli spettatori che preferirebbero farsi cavare un molare piuttosto che assistere alla visione di opere d’impegno civile alla Ken Loach. Colpevoli a loro parere di far venire la depressione ed esacerbare (ma questa contestazione è mossa dai fan più avvertiti delle pellicole targate Marvel) le prese di posizione pro o contro. Nel primo caso  sarebbe la legittima elezione ad autore tout court di Gravel a prendere piede. Non è dato sapere se Gravel abbia mai patito il cruccio di arrivare a fine mese rispettando le scadenze delle bollette all’ultimo minuto. Mentre è noto che Oliver Stone sia stato un novellino del mestiere delle armi suggestionato nella guerra del Vietnam dal Male e dal Bene al pari dell’alterego Chris in Platoon.

La fragranza della sincerità, come nel caso del film duro ma puro sugli orrori e le suggestioni imperanti nella giungla vietnamita dove i soldati americani hanno conosciuto l’onta della sconfitta sia morale che pratica, emerge comunque al di là delle dichiarazioni o delle confessioni in merito degli autori con la “a” maiuscola o minuscola. Rispetto a Io, Daniel Blake e ad altri film girati da Ken Loach, ritenuto sin dagli esordi con Kes e Poor cow l’aedo della working class britannica, Gravel resta un direttore della fotografia che ha diretto un film come regista volenteroso ma avventizio. Lo status d’autorialità, paragonato al modo di fare cinema di Ken Loach, noioso o no, condivisibile sul piano ideologico o comprensibile unicamente sul versante per così dire umanitario, il pur volenteroso Éric non lo sfiora neanche di striscio. A tinteggiare col carattere d’autenticità i muri per protesta e la scrittura per immagini per vocazione il direttore della fotografia divenuto regista non ci pensa proprio. Il proposito manifesto è quello di fare il verso a un film autoctono, La legge del mercato di Stéphane Brizé, rendendo le traversie sul lavoro e nella vita d’ogni giorno dell’affannata ma energica Julie appassionanti se non cool. Anche perché c’è poco di cool, ed ergo di “figo” alla Top gun, nell’itinerario umanissimo, e quindi pure “sfigatissimo”, di una donna che quando lavora semina mille e raccoglie nel migliore dei casi dieci.

Se lo status d’autorialità non è nemmeno contemplato, lo stato d’attesa del thriller è comunque costeggiato in modo a tratti persuasivo. L’opera di persuasione prosegue con una certa efficacia nella descrizione più dettagliata degli affanni e delle speranze, ovviamente infrante, di Julie. La prova recitativa dell’incisiva Laure Calamy nel ruolo dell’insistente protagonista (Julie non demorde mai pur di regalarsi un attimo di distensione e forse di felicità) è la cosa migliore di  Full time – Al cento per cento: merita una lode. Ma non incondizionata. In quanto appaiata alla strategia di promuovere una caratterista, che certamente nella vita d’ogni  giorno ha sbarcato il lunario come Julie per avviare un piano b e sopperire al mancato inquadramento sindacale delle attrici, a protagonista. La fragranza della sincerità c’è. Tuttavia appartiene allo spettacolo di secondo piano della recitazione. A livello implicito. Il passaggio dai timbri impliciti a quelli espliciti fa la spia alla natura improvvisata di certi movimenti di macchina. Talora funzionali. Spesso telefonati. Full time – Al cento per cento coglie certamente nel segno in merito agli accenti ravvisabili nel lavoro pagato poco e sudato molto ed elude il rischio di cadere nella monotonia (il ché è già qualcosa). Nondimeno le sfumature e i semitoni dei film d’autore, compresi quelli di Loach detto “Ken il rosso”, vanno parecchio più in profondità. Éric Gravel rimane in superficie. E in fondo va bene pure così.

 

 

Massimiliano Serriello