Il Grande Spirito: la periferia secondo Sergio Rubini

Un malvivente di mezza età e la fuga con il bottino – a scapito dei suoi complici – in seguito a una rapina. Un uomo solo che è convinto di far parte della tribù dei Sioux e lo spirito da bambino che non lo ha mai abbandonato. Sono loro i due protagonisti de Il Grande Spirito, diretto dal regista e attore pugliese Sergio Rubini.

Dopo una poco convincente escursione all’interno di complicati problemi di coppia (con Dobbiamo parlare, del 2015), Rubini torna a raccontarci la sua amata terra, con una storia a metà strada tra il reale e il surreale, che ci appare quasi come una sorta di favola moderna dalle connotazioni universali.

I due protagonisti, dunque, sono Tonino (Sergio Rubini), malvivente che, dopo essere scappato con il bottino di una rapina, trova rifugio in un vecchio lavatoio situato in cima ad uno dei palazzi più alti della periferia, e Renato (Rocco Papaleo), il quale si fa chiamare Cervo Nero, porta costantemente una piuma d’uccello dietro un orecchio ed è certo che il Grande Spirito gli parli.

Un approccio registico estremamente realista non ci risparmia, qui, scene violente e di grande impatto emotivo (come, ad esempio, i momenti riguardanti la vita di Teresa, vicina di casa di Renato, la quale è costretta da un marito violento a prostituirsi). Eppure, tale approccio ben si miscela con sporadici elementi provenienti direttamente dal surreale e dall’onirico, che vanno a condire l’intera vicenda.

Ciò che convince meno di una lavoro come Il Grande Spirito, forse, sono proprio i due attori protagonisti. Eccessivamente caricati e sopra le righe, i due ci appaiono quasi come involontarie macchiette, finendo inevitabilmente per perdere presto di credibilità.

Un lavoro imperfetto, quello sì, Ma almeno non raggiunge i livelli del deludente Dobbiamo parlare, dimostrando, a suo modo, anche una certa genuinità.

 

 

Marina Pavido