La dea fortuna: Özpetek costeggia gli stilemi della commedia ed esalta i timbri del melodramma

Ferzan Özpetek, ormai, conosce bene i suoi polli. Anche La dea fortuna, ne pone in risalto l’attitudine ad abbinare l’assoluta virtù di far riflettere ironicamente e di far ridere amaramente, tipica della gloriosa commedia all’italiana, con i tratti distintivi del mélo portato in auge, perlomeno nel Bel Paese, da Raffaello Matarazzo.

A dispetto, tuttavia, del candore dell’ispirazione autobiografica, alla base del denso plot redatto a sei mani insieme al solerte ed esperto Gianni Romoli e all’accorta Silvia Ranfagni, l’instabile timbro d’autenticità persuade più i fan di provata fede del regista turco, trapiantato nella Città Eterna ai tempi degli studi universitari, che gli spettatori imparziali.

La terrazza dell’appartamento romano dove l’inquieto intellettuale bolognese Arturo vive con il grezzo e schietto idraulico capitolino Alessandro è frutto di una proiezione idealistica, sulla possibilità di condividere con i vicini di casa un’identica scala di valori, estranea alla crudezza oggettiva.

Fin qui, nulla da ribattere: un autore con la “a” maiuscola ha la prerogativa di trasfigurare la realtà, inasprendo ed edulcorando ciò che ritiene opportuno sulla base del proprio carattere d’ingegno creativo. Eppure – dopo l’incipit dai toni stranianti ed evocativi frammisti a quelli variopinti e programmaticamente fragorosi – l’impeto immaginifico – che dapprincipio aveva esibito il sigillo apotropaico di un’antica abitazione coi risvolti quasi horror – cede spazio agli spiritosi segni d’ammicco connessi ad alcune ovvie pieghe patetiche.

L’ingresso in scena dell’inquieta amica del cuore, Annamaria, con i due figlioletti al seguito, spinge la vicenda, dapprincipio impreziosita dai vari echi e controechi, a tornare all’abbiccì.

Alle previe tecniche di straniamento, in grado di esibire la punta di spina del dolore, nascosta dietro l’estrinseca felicità della festa, seguono dinamiche narrative molto convenzionali.

Quando l’eterna ragazza madre viene ricoverata in ospedale per capire la causa dei continui attacchi di emicrania, ad assicurare un colpo d’ala all’abitudine di gioire tra le lacrime – sull’esempio del cult Voglia di tenerezza – è l’infermiera ruvida ma sensibile impersonata da Barbara Chicchiarelli.

Peccato, però, che il personaggio, invece di acquisire l’opportuno spicco al fine di bilanciare letizia e duolo, sulla falsariga dell’esimio William Shakespeare, si diradi via via.

Il mancato approfondimento dell’apparente disincanto di chi lavora giorno per giorno a contatto con la sofferenza, lontano dalla deformazione caricaturale dei grossolani paramedici esibiti da Carlo Verdone in Un sacco bello, innesca il durevole appello ad altre gag di alleggerimento assai meno sagaci.

L’incontestabile cavallo di battaglia della geografia emozionale, capace di conferire notevole pathos e un certo spessore contenutistico alle modalità di presenza dei compositi luoghi, giunge in soccorso dell’inane semplicismo.

Mentre il quartiere familiare e i territori storici dell’Urbe stentano ad acquisire un’identità che colga gli aspetti occulti ed eterei dei silenzi, intervallati ai fiumi di parole, la location siciliana sorregge appieno l’azione.

L’innesto in dosi da cavallo della musica extradiegetica, con i pur attraenti brani composti da Pasquale Catalano sugli scudi al pari dell’evergreen di Mina, Chihuahua, finisce, a ogni buon conto, per far regredire nell’enfasi di circostanza la natura antiretorica degli stati d’animo creatisi col viaggio nel Sud.

La valenza indicativa, talora perfino metaforizzante, tanto della costa, rimirata dal traghetto grazie al nitore luministico garantito dall’attento direttore della fotografia Gian Filippo Corticelli, quanto dell’algida villa dove l’anziana mamma di Annamaria accoglie la coppia gay con l’improntitudine degli aristocratici, affiora lo stesso in modo compiuto.

La ridondanza del diritto alla felicità delle persone ritenute inferiori dagli alfieri della tradizione serpeggia in qualche azzeccato semitono ed esorbita nelle assidue reazioni mimiche.

Stefano Accorsi (Arturo) passa dal sorriso mansueto al soprassalto nevrotico sulla scorta di una mutevolezza di accenti e di sfumature poco calibrata rispetto al solito. Edoardo Leo (Alessandro) replica con una sottorecitazione accigliata ed evidente. Forse troppo.

Jasmine Trinca coniuga il ciglio commosso all’empatico brio da bimba cresciuta senza trarre linfa dall’abituale scioltezza recitativa. Al contrario dell’anziana esordiente Barbara Alberti che, nei panni dell’arpia Elena Muscarà, intenta come nonna a perseverare negli sbagli commessi in veste di genitrice maniaca del controllo, merita una lode incondizionata.

Il montaggio alternato di Pietro Morana pesca nell’ovvio allorché mette a confronto le liti degli adulti con i dissidi dei piccoli. La spontaneità di tratto della brava Sara Ciocca nei panni dell’orgogliosa Martina penetra comunque del cuore.

L’utilizzo, in ultima analisi, del litorale dell’Addaura e della spiaggia di Vergine Maria a Mondello alla stregua di mete riflessive, che condizionano sia le pause ascetiche sia i catartici interludi di complicità, analoghi alle note intimiste scandagliate da Gianni Amelio con Il ladro di bambini, paga dazio al sovrappiù delle infeconde componenti manieristiche.

 

 

Massimiliano Serriello