La tigre bianca: dal romanzo di Aravind Adiga a Netflix

Lo strenuo desiderio di riaffermazione, scandagliato appieno in chiave thrilling nel precedente mélo a tinte forti 99 homes, torna ad animare l’ambiziosa tenuta stilistica del regista statunitense d’origine iraniana Ramin Bahrani con la trasposizione per lo schermo dell’appassionante romanzo La tigre bianca di Aravind Adiga.

L’apprezzabile tecnica di ripresa muta segno. Conquistando la top ten di Netflix. Il cambio di paradigma risponde così alle attese degli spettatori dai gusti semplici, che s’identificano nelle traversie del paria hindi Balram Halway alias Adarsh Gourav, destinato a scalare i gradini dell’impervia scala sociale divenendo imprenditore nonostante le palesi ingiustizie perpetrate dai ricchi privilegiati ai danni delle classi più umili, d’estrazione bucolica, ma antepone il prevedibile mix di mystery ed echi difformi all’originalità della previa suspense meditabonda.

Anche rispetto al libro, contraddistinto dal caustico e sagace sarcasmo in grado di trascendere qualsivoglia sbavatura patetica ed esaminare l’altalena degli stati d’animo connessi all’amarcord delle umiliazioni patite prima dell’ambìto riscatto attraverso un’ottica fuori dall’ordinario, le interpolazioni della pur gradevole scrittura per immagini fanno vanamente rotta sulla superficie dei segni d’ammicco. Ad approfondire il colpo di gomito delle modalità esplicative, con la voice over del neo manager che racconta idealmente l’iniquo modus operandi imperante nel suo paese al ministro cinese in visita e i soliti pedinamenti neorealisti sugli scudi, avrebbero dovuto provvedere delle soluzioni sceniche aliene all’impasse dell’infecondo déjà-vù. Ed è invece la sensazione del “già visto” ad avvolgere le scontate pagine d’illustrazione nel misero villaggio dove il profetico maestro elementare equipara l’alacre studentello Balram a una tigre bianca. Meritevole della borsa di studio ed ergo dell’affrancamento dalla condizione di vassallaggio agli odiosi padroni del vapore.

Mentre l’incipit, scandito dalle sbirciate in macchina del predestinato ormai giunto sulla vetta, a costo di vendere l’anima al diavolo, riecheggia la rottura della finzione d’ascendenza brechtiana, senza aggiungervi granché sul piano dell’ingegno personale, il prosieguo, con l’ampio flashback che guarda al misero mondo circostante stemperando l’amarezza in dileggio, costeggia qua e là un curioso impasto d’ironia ed empatia. Peccato che a lungo andare gli evidenti richiami, attinti alla bell’e meglio, a Nuovo cinema Paradiso, City of God e Il talento di Mr. Ripley compromettano l’arguta aneddotica al servizio dell’accattivante puzzle narrativo. Il margine d’enigma della trama è dunque subordinato ai plagi sotto banco, al carattere spiccio del bozzettismo pittoresco, alle angolazioni oblique fini a se stesse, lontane anni luce dal senso di straniamento congiunto all’uso della contre-plongée, alle innocue unghiate satiriche e ai valori ornamentali. Riscontrabili in particolare nella pleonastica gamma cromatica della fotografia incapace, a dispetto dei copiosi giochi chiaroscurali e degli evidenti virtuosismi luministici, di cogliere le zone d’ombra nella giungla urbana di New Delhi.

Agli scontati bagliori metropolitani corrisponde la convenzionale aderenza dei suoni diegetici ed extradiegetici. Il passaggio dalle cadenze da commedia grondante d’insicurezza affettiva, tradotta in meri sberleffi ed esanimi sketch, alle note gravi del confronto a muso duro col padrone arrivato al capolinea palesa l’assenza dello stupore poetico necessario ad assorbire i cambiamenti prospettici nell’analisi spiazzante ed elegiaca delle nevrosi. Che stringono nella malinconia dopo aver tenuto desta l’attenzione del pubblico provvisto di licenza media con l’antidoto contro l’abbattimento e il tedio. Individuato nei brevi ritagli d’esistenza, congiunti alla coroncina di sorrisini procurati dai reiterati frizzi, ai limiti dello stereotipo parodistico, e nelle strizzatine d’occhio sprovviste d’acume. Giacché i trapassi psicologici, a corto sia d’estro sia di coerenza strutturale, ci consegnano l’ennesimo apologo sul nuovo millennio dominato, secondo il protagonista, da gialli e neri. L’impersonale prova del cast col modesto humour trascina intanto La tigre bianca nell’ipotetica levità del controcanto dei pesanti quesiti morali. L’inconsistente sentimentalismo che sobbalza di sponda in sponda per tutto il film chiude poi definitivamente i battenti. Accrescendo i rammarichi per l’ingegnosa idea di partenza svanita nell’insipida ridondanza.

 

 

Massimiliano Serriello