Prigione 77: un dramma carcerario da fatti veri

Candidato a ben sedici premi Goya, Prigione 77, diretto dal regista spagnolo Alberto Rodríguez, se ne è aggiudicati cinque in ambito tecnico, e tra essi spiccano quelli per migliore scenografia, migliori effetti speciali, miglior trucco e migliori costumi.

Ambientato alla fine degli anni Settanta durante la cosiddetta Transizione spagnola, ovvero il passaggio dal regime franchista alla democrazia, il film è infatti estremamente accurato sotto tutti i punti di vista e i riconoscimenti ricevuti ne sono la prova.

Manuel, interpretato dal bravissimo Miguel Herrán, è un contabile che ha sottratto dei soldi alla sua azienda e finisce nella prigione Modelo di Barcellona: il suo non sembrerebbe un reato poi tanto grave, eppure gli vengono prospettati otto anni di carcere. Carcere in cui le guardie se la comandano, come in ogni dramma carcerario che si rispetti, e in cui non mancano la figura del detenuto che procura la merce, “buono” e sempre pronto ad aiutare i compagni, e quella del compagno di cella apparentemente burbero ma saggio. Fanno la loro parte anche l’avvocato d’ufficio incompetente e quello che si batte per assicurare un giusto processo ai suoi clienti, oltre ai violenti di turno, da cui stare alla larga per quanto possibile. Manuel si ritrova coinvolto ben presto, suo malgrado, in qualcosa di più grande di lui: le condizioni in cui versa il carcere sono infatti ben lontane da qualsiasi concetto di igiene e diritti umani e gli stessi detenuti sono continuamente vessati dalle guardie che fanno largo, larghissimo uso dei loro manganelli. Il giovane, ingenuamente, inizia a protestare, a chiedere incontri con il direttore del carcere e a firmare reclami, pagandone di volta in volta le conseguenze.

Del resto, come spiega il compagno di cella Pino, magistralmente interpretato da Javier Gutiérrez Álvarez, lì dentro c’è chi Franco non lo vuole per strada, ovvero dissidenti politici, ladruncoli, persone con diverso orientamento sessuale, analfabeti. Ma in tutta la Spagna pian piano si sviluppa una certa consapevolezza e nasce l’Associazione per i Diritti dei Prigionieri: al grido “Amnistia”, nel 1976 vengono liberati i dissidenti politici mentre gli altri detenuti restano in carcere, alla mercé dei carcerieri, sempre più violenti e inaspriti dalle proteste. Però, quando le figure più influenti tra i prigionieri muoiono per fantomatici infarti, le proteste si ampliano, gli animi si infiammano e i disordini prendono il sopravvento. Lo stesso popolo spagnolo, informato, prende le parti dei detenuti. Ed è un bellissimo film Prigione 77, che racconta con cura e dovizia di particolari un periodo storico particolarmente buio per la Spagna: lo fa con uno stile attento, privo di inutili fronzoli, che punta al realismo della narrazione e si concentra sulle prove attoriali, intense e coinvolgenti. La macchina da presa segue i protagonisti fin nell’intimo delle loro celle, dove i primissimi piani lasciano trapelare tutte le emozioni, dalla rabbia alla disperazione, fino alla disillusione.

Vuoi per alcune figure descritte, vuoi per le proteste che scoppiano tra i freddi settori del carcere, il film di Rodríguez ha un che de Le ali della libertà e ricorda anche Nel nome del padre, senza dubbio tra i film di ambito carcerario più belli degli ultimi trent’anni. Tuttavia si concentra principalmente sul sistema giudiziario discriminatorio e fascista che per lungo tempo, dopo la morte di Franco, continuò ad essere in vigore. Del resto, già in La Isla mínima Rodríguez aveva esplorato certe dinamiche che facevano dell’insabbiamento e dell’omertà i principi cardine della società post-franchista. Eppure, nel bel mezzo dell’escalation di violenza, Prigione 77 è anche, e soprattutto una storia di coraggio, di amicizia e di lealtà, in cui la ricerca della giustizia prevale su tutto. La sequenza in cui i detenuti fanno a pallate di neve nel cortile del carcere e Manuel li osserva dalle lenti colorate dei vecchi occhialini per il 3D raggiunge una intensa vetta poetica. Il sorriso di Lucía, ragazza con cui negli anni ha stabilito un forte legame emotivo, chiude il film lasciando un senso di speranza e di pace ritrovata. Mentre su tutto aleggia una grande verità, una massima adattabile ad ogni angolo del pianeta in cui non vige la democrazia: “questo paese è per i figli dei suoi padroni”.

 

 

Daria Castelfranchi