Recensione: The lodgers – Non infrangere le regole, l’ira si sveglia a mezzanotte

L’amore può essere peggio dell’odio?

Come può qualcosa di crudele venire dall’amore?

Nelle idee del regista Brian O’Malley – alla sua opera seconda dopo Let us prey, del 2014 – potremmo in un certo senso considerare The lodgers – Non infrangere le regole in qualità di sorta di continuazione del Suspense che, diretto nel 1961 da Jack Clayton, raccontò in bianco e nero l’affascinante vicenda di una istitutrice alle prese con due piuttosto inquietanti bambini.

Del resto, a causa di una maledizione che grava sulla propria famiglia, nell’Irlanda del 1920 sono in maniera analoga due gemelli orfani dalle fattezze della Charlotte Vega di American assasin e del Bill Milner visto in Dunkirk a trovarsi rinchiusi in una vecchia villa per espiare le colpe dei loro antenati.

Villa in cui, governati da una ossessiva ninna nanna da brivido, non possono far accedere nessuno e, oltre a non separarsi mai l’uno dall’altra, devono trovarsi nelle loro stanze allo scoccare della mezzanotte, in modo che non si scateni l’ira di una sinistra presenza che, dopo quell’ora, s’impossessa dell’abitazione.

Un’abitazione che, più che altro tomba per vivi, è sempre O’Malley ad associare all’atipico vampire movie Miriam si sveglia a mezzanotte  di Tony Scott, complici anche la relazione emblematica al centro del plot e la scelta di utilizzare nella stessa maniera specchi e giochi di riflessi.

Punto di riferimento cui aggiunge anche The duke of Burgundy di Peter Strickland per quanto riguarda il dramma psicosessuale di fondo; soprattutto dal momento in cui la citata protagonista, a differenza del rassegnato fratello, cerca di sfuggire al supplizio dell’opprimente prigionia dopo essersi innamorata di un soldato del posto incarnato dall’Eugene Simon della serie televisiva Il trono di spade.

Man mano che, se da un lato, illuminata esclusivamente da candele, la dimora – grazie, inoltre, ai cupi toni dispensati dalla fotografia di Richard Kendrick – non può fare a meno di manifestare i connotati di avvolgente e claustrofobico involucro, dall’altro una perennemente grigia atmosfera caratterizza anche gli esterni a base di bosco quasi fiabesco, non distante da quello in cui Cappuccetto rosso incontra il lupo cattivo o dove Biancaneve fugge dopo essere stata avvicinata dal cacciatore.

Mentre sono apparizioni improvvise, minacciose voci sussurrate e, non ultime, le suggestive suonate al piano della colonna sonora di Kevin Murphy, Stephen Shannon e David Turpin a fare da principali ingredienti horror nella circa ora e quaranta di visione che, di evidente impostazione teatrale (recitazione compresa) e comprendente anche immancabili, umidi spettri striscianti dai capelli lunghi d’influenza tipicamente orientale, individua il suo maggiore pregio nell’accattivante comparto visivo.

Perché, tra un probabile omaggio conclusivo al capolavoro francese L’Atalante di Jean Vigo e narrazione che, da tradizione delle ghost story d’inizio terzo millennio, si evolve lenta, è, indubbiamente, la capacità di far sembrare buona parte delle immagini come dipinti tradotti in live action a rendere superiore il non sempre chiaro insieme – comunque costruito su una storia piuttosto originale – rispetto a contemporanei esempi in fotogrammi rientranti nello stesso filone.

 

Francesco Lomuscio