Stasera in tv Dogman di Matteo Garrone, con Marcello Fonte ed Edoardo Pesce

Stasera in tv su Rai 4 alle 21,20 Dogman, un film del 2018 diretto da Matteo Garrone. La pellicola si ispira al cosiddetto delitto del Canaro, l’omicidio del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, avvenuto nel 1988 a Roma per mano di Pietro De Negri, detto er canaro. Tuttavia la trama se ne discosta molto col procedere dei minuti. Il film è stato selezionato per rappresentare l’Italia ai premi Oscar 2019 nella categoria per il miglior film in lingua straniera, ma non è entrato nella short-list dei dieci film pre-selezionati. Il film è stato girato a Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno. Dogman si è aggiudicato il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes del 2018 (Marcello Fonte), tre European Film Awards (Miglior attore a Marcello Fonte, Migliori costumi a Massimo Cantini Parrini, Miglior trucco a Dalia Colli, Lorenzo Tamburini e Daniela Tartari) e otto Nastri d’Argento (Miglior film, Miglior regista a Matteo Garrone, Miglior produttore a Matteo Garrone e Paolo Del Brocco, Migliore attore protagonista a Marcello Fonte e Edoardo Pesce, Migliore montaggio a Marco Spoletini, Migliore scenografia a Dimitri Capuani, Migliore sonoro in presa diretta a Maricetta Lombardo, Miglior casting director a Francesco Vedovati). Scritto e sceneggiato da Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Fabio e Damiano D’Innocenzo, Marco Perfetti e Giulio Troli, Dogman è interpretato da Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Alida Baldari Calabria, Francesco Acquaroli, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi.

Trama
Marcello è un uomo mite, che possiede una toelettatura per cani e che è totalmente preso dalla piccola figlia. Simoncino invece è uno svitato pugile, appena uscito dal carcere e in cerca di pericolo. Legato dalla lealtà nei confronti dell’amico, Lucio segue i piani di Simoncino e diventa il suo compagno in una serie di scorribande che terrorizzano la loro periferia. Succube del carismatico Simoncino, Marcello finirà per prendere consapevolezza su quanto negativa sia l’influenza dell’amico, immaginando una vendetta dall’esito inaspettato.

Dopo l’incursione nel fantasy con Il racconto dei racconti, film non completamente riuscito, in quanto – è un’ipotesi – forse non proprio nelle sue corde, Matteo Garrone torna a un cinema che gli è più congeniale, laddove, anche in passato (Primo amore, L’imbalsamatore, Gomorra e Reality), ha dimostrato di trovarsi a suo agio con realtà ‘ruvide’ che, attraverso un prezioso sguardo trasfigurante, hanno ogni volta assunto un potente respiro metaforico in grado di veicolare profonde riflessioni e trascinanti emozioni.

Con una regia volutamente contenuta dal punto di vista tecnico e una fotografia plumbea e struggente, curata dal bravo Nicolaj Brüel, il regista ci conduce un’altra volta in un mondo liminale, un “sottomondo”, verrebbe da dire, dominato da ancestrali rapporti di forza, in cui violenza, morte e solitudine scandiscono un’esistenza attraversata da un soffio gelido che congela la vita interiore, riducendo i personaggi a marionette inanimate, in balia di una ferocia che s’illudono di gestire ma in realtà subiscono.

La dialettica vittima-carnefice, che costituisce l’impianto narrativo del film (nella fattispecie quella che intercorre tra Marcello e Simoncino, i bravissimi Marcello Fonte ed Edoardo Pesce), evapora di fronte all’impossibilità di raggiungere una sintesi che provochi – in termini hegeliani – un reale superamento. L’oppressione esercitata dal disumano pugile di periferia, sebbene alla fine trovi un’iperbolica opposizione (che sfocia nell’annientamento del crudele bullo), innanzitutto e per lo più è assecondata dalla complicità del mite ‘canaro’, il quale, pur subendo umiliazioni, soprusi e prevaricazioni intollerabili, non riesce a sottrarsi a una dinamica che, in fondo, gli appartiene (non si è mai completamente vittime, c’è sempre una parte di responsabilità anche della parte lesa).

Ciò a cui il regista è maggiormente interessato è, infatti, testimoniare quanto l’essere umano contenga un’ineliminabile quota di orrore che, quantunque provochi sdegno e turbamento, non può essere estirpata fino in fondo. L’atto estremo di Marcello non riesce a riequilibrare l’iniquità di una situazione non emendabile nella sua interezza. Durante il film lo spettatore è sottoposto a una sorta di tortura, laddove è presente in Dogman un dichiarato intento di sconvolgerlo, di non farlo distrarre e risucchiarlo nel vortice di un abisso, di un buco nero in cui precipita inesorabilmente l’essere, facendo così risaltare quel nulla che da sempre lo attraversa.

Non c’è possibilità di equivocare sul senso generale del film, poiché ogni elemento volge vorticosamente verso un esito funestissimo, nel (e dal) quale prende forma un mondo privo di pietà, di compassione e di minima capacità di accoglienza dell’altro. Le uniche sequenze in cui Garrone concede una tregua sono quelle ‘sottomarine’, quando Marcello, paradossalmente, può respirare, ritornare alla dimensione emotiva sempre messa tra parentesi (se non per il suo rapporto amoroso con i cani, che, comunque e per fortuna, non può redimere, non può cioè sostituire quello con gli umani), prendendo per mano la piccola figlia, la sola con cui si concede di vivere la propria umanità. Ma, per l’appunto, sono brevissime interruzioni all’interno di un flusso temporale contrassegnato da un tragico succedersi degli eventi: un’invincibile angoscia fa da sfondo a tutto ciò che accade e ogni personaggio pare stare con il fiato sospeso, nell’intento di evitare di sprofondare in un precipizio sinistramente incombente.

Ugo Chiti, Massimo Gaudioso (gli sceneggiatori) e Matteo Garrone tornano, in maniera abbastanza evidente, alle atmosfere perturbanti de L’imbalsamatore, giacché anche in quella occasione veniva articolata una malsana dialettica tra il tassidermista Peppino Profeta (un ambiguo e inquietantissimo Ernesto Mahieux) e il giovane Valerio (Aldo Leonardi), che sfociava in un finale amarissimo. Dogman è un film solido, con cui Matteo Garrone riprende gli stilemi tipici della propria poetica, contrassegnata da un efficace sguardo trasfigurante, capace di tramutare in favola nerissima significante un abominevole fatto di cronaca.

 

 

Luca Biscontini