The kill team: la vera storia di un plotone di assassini

L’origine di The kill team risale all’Aprile 2011, quando il regista Dan Krauss lesse un articolo sul New York Times a proposito di alcuni soldati americani in Afghanistan che stavano affrontando la corte marziale. In particolare, era interessato al profilo di Adam Winfield, stranamente descritto nell’articolo come informatore e, allo stesso tempo, sospettato di omicidio.

Dan riuscì a contattare la famiglia Winfield e ad assistere al processo di Adam, scoprendo la sua storia in modo più dettagliato: Adam aveva cercato di denunciare alcune atrocità commesse dai soldati americani nel sud dell’Afghanistan nel 2010 e, allo stesso tempo, era accusato di aver collaborato a tali azioni. Da qui, l’inizio di un viaggio durato otto anni che ha portato il regista a girare un documentario basato su questa storia (vincitore di un premio al Tribeca e nominato agli Emmy e ai DGA) e, successivamente, a scrivere la sceneggiatura sugli stessi accadimenti per la realizzazione di un film.

Grazie al successo del documentario il regista ha potuto trovare la società di produzione interessata a realizzare il lungometraggio, e anche un ottimo cast. Fin qui la storia di come è nato The kill team, che vede protagonista Andrew Briggman (Nat Wolff), giovane militare di stanza a Kabul, e il suo plotone, a cui è assegnato il compito di presidiare la zona e individuare possibili cellule terroristiche.

L’arrivo del nuovo Sergente Deeks (Alexander Skarsgård), spietato e con tanti turni di combattimento in interventi precedenti in Iraq, trasforma presto il plotone in un branco di assassini il cui unico scopo è uccidere e abusare delle popolazioni locali, in parte per puro sadico divertimento, in parte con l’ottusa idea del potere americano e con la necessaria decisione che tutti sono nemici e vanno eliminati. De facto, gli eroici soldati a stelle strisce uccidono senza motivo, solo per far ben capire chi comanda e che ad ogni americano ucciso si risponderà senza mezzi termini. Insomma, quello che accadde su scala globale nella Seconda Guerra Mondiale con abusi da entrambe le parti, qui viene esercitato da un piccolo ma deciso plotone di assassini.

Il film sceglie di affrontare il dilemma del giovane soldato, pronto e fiero di fare la sua parte, che in breve si trova a diventare complice degli assassini ben orchestrati, facendo finta che le persone uccise fossero in possesso di armi o bombe a mano piazzate ad hoc sul posto. La decisione di denunciare i suoi compagni e se stesso sarà l’amara conseguenza della guerra.

Nel documentario il regista cercava di comprendere i motivi del perchè Adam aveva deciso di affrontare la corte marziale, condannando i suoi compagni e il suo sergente, con il quale aveva diviso molte rischiose missioni di guerra. Un dato di fatto è che, spesso, situazioni critiche fanno unire un gruppo in un modo che nessun altro legame può spezzare. Non è un caso che tutti coloro che hanno passato anche un semplice periodo nel servizio militare riconoscano nei compagni più stretti un legame che va oltre quello di fratellanza. In situazione di guerra questo livello sale ben oltre, visto che la propria vita dipende dal proprio compagno e spesso il leader, nel nostro caso il sergente, è una figura fin troppo carismatica.

Dan Krauss riesce a catturare il dilemma shakesperiano del soldato Adam e cerca anche, in qualche modo, di farci comprendere perchè il sergente porti su un lato totalmente oscuro i suoi uomini: un lato che in guerra è sempre presente e che, spesso, ha fatto considerare il nemico, uomo, donna o bambino, un semplice bersaglio da eliminare per permettere al proprio gruppo di continuare a sopravvivere.

The kill tema riesce bene nei suoi intenti, anche con un certo sapore di film del passato, e Dan Krauss evita di replicare il proprio documentario, senza mostrarci il processo e le conseguenze, ma preferendo di focalizzarsi sulle dinamiche del gruppo e sul perché dei soldati inviati in un complicato fronte come quello dell’Afghanistan decidano senza mezzi termini che tutti vadano semplicemente eliminati, in quanto, prima o poi, diventeranno dei nemici.

Infine, Adam rappresenta un giovane idealista che decide di opporsi a questo lato oscuro, ma, sicuramente, non sfuggirà allo spettatore che spietati assassini in nome di Allah abbiano perpetrato orribili stragi. E, forse, è questo l’aspetto più inquietante del film, che ci fa giudicare il sergente colpevole, ma che spinge anche a chiederci se noi, messi nelle stessa situazione, avremmo agito come Adam o avremmo continuato con gli assassini di quelli che altro non sono nemici dell’occidente.

 

 

Roberro Leofrigio