The nest (Il nido): non uscire da quella casa

Prendiamo l’antico e lugubre edificio Villa dei Laghi, situato al centro di tre laghi artificiali all’interno del Parco Regionale La Mandria (nei pressi di Torino) e fatto erigere tra il 1863 e il 1868 da Re Vittorio Emanuele II come reposoir di caccia, e caliamovi dentro Francesca Cavallin e l’esordiente Justin Alexander Korovkin.

In The nest (Il nido), primo lungometraggio diretto dal Roberto De Feo che tanto ha fatto parlare di sé grazie agli short Ice scream e Child K, lei è una glaciale dark lady che vive, appunto, nella imponente residenza circondata dai boschi, lui il giovane figlio paraplegico, al quale vieta rigorosamente di allontanarsi dall’abitazione, costringendolo ad una routine quotidiana destinata a renderlo sempre più insoddisfatto e irrequieto.

Una situazione che il cineasta originario di Bari definisce come la versione thriller di The Truman show di Peter Weir, annoverando tra i dichiarati modelli di riferimento cinematografici anche The others di Alejandro Amenàbar e The village di M. Night Shyamalan, dai quali recupera soprattutto la propensione a far evolvere lentamente la oltre ora e quaranta di visione.

Una oltre ora e quaranta di visione in cui gli strambi equilibri del nucleo familiare in questione finiscono per essere scardinati dall’arrivo di una adolescente dalle fattezze della televisiva Ginevra Francesconi, intenta a spingere il ragazzo ad aprirsi al mondo per liberarsi, di conseguenza, da quell’eterna prigionia in cui svolge un fondamentale ruolo anche un inquietante dottore incarnato da Maurizio Lombardi.

Una oltre ora e quaranta di visione che, dunque, privilegia in particolar modo lo sviluppo del rapporto tra i due piccoli protagonisti, individuando il proprio maggiore punto di forza nella cupa atmosfera impreziosita dal buon lavoro svolto da Emanuele Pasquet sulla abbondantemente contrastata fotografia.

Per il resto, però, sebbene dal punto di vista tecnico The nest (Il nido) non abbia nulla da invidiare a più costose analoghe produzioni d’oltreoceano e la sequenza della lobotomia testimoni ulteriormente una certa padronanza della macchina da presa da parte di De Feo, in mezzo ad infinità di chiacchiere e suonate al pianoforte si sprofonda nella noia e non si fatica ad avvertire sia falle di sceneggiatura che una forte mancanza di originalità che non spinge davvero a pensare alla tanto decantata rinascita d’inizio terzo millennio dell’horror tricolore.

E, come se non bastasse, il film si chiude proprio quando dovrebbe cominciare il bello, con una suggestiva immagine finale decisamente sprecata.

 

 

Francesco Lomuscio