Un lungo viaggio nella notte: tendenze di punta ed elementi onirici per Bi Gan

Gli sdoppiamenti tra sogno e realtà solleticano il versatile regista cinese Bi Gan, avvezzo altresì alla capacità di scrivere con la luce ad appannaggio degli avvertiti direttori della fotografia, innescando la tendenza di punta dell’ormai risaputa contaminazione culturale. Un lungo viaggio nella notte, dopo l’intenso ed ermetico noir introspettivo Kaili Blues, incentrato sull’ampio margine d’enigma scaturito dalla carica immaginifica della geografia emozionale, conferma l’attitudine a nobilitare le varie suggestioni feticistiche.

La maggior parte delle quali legate al concetto di cinefilia che celebra l’amore per le atmosfere cool che hanno impreziosito il passaggio dell’hard boiled, coi romanzi investigativi di Dashiell Hammett nelle vesti d’indiscutibili archetipi, dalla pagina scritta dei libri all’assoluta magia del grande schermo. Non a caso il fascino del buio in sala permea l’itinerario antinarrativo di Un lungo viaggio nella notte.

La voce fuori campo del protagonista, che associa la sensazione di trovarsi nel mondo dei sogni al viaggio extracorporeo, tradisce però il ricorso alle componenti manieristiche. La modalità esplicativa, aliena sia in prassi sia in spirito al mistero che alimenta il fascino irrazionale della poesia, cede presto spazio agli stilemi del racconto simbolico. La ricerca dell’anima gemella all’interno dell’ennesimo teatro dell’assurdo, intento a tingere di fantastico persino la crudezza oggettiva imperante nei tuguri dove le prostitute donano il loro corpo per pochi spiccioli mentre lo spirito catartico resta prigioniero dell’empia materia, manca dell’idoneo tocco dell’originalità. Il colpo di gomito, ancorché mandi in brodo di giuggiole gli spettatori affezionati all’intrinseca riflessione sul bene e il male che presiede a ogni rompicapo impreziosito dalla dimensione monumentale del panegirico, rende piuttosto programmatiche le copiose attese meditative. Se non regrediscono nell’irrimediabile tedio il merito è del cliché, pur sempre efficace, del duro ma puro che affronta lo spettro dell’atroce solitudine e insegue la chimera della felicità a costo di pagare lo scotto ad amari disturbi borderline. L’onnipresente punteggiatura sonora risulta sprovvista dell’opportuna gamma espressiva, con annessi e connessi, in grado di aggiungere calore umano all’algida stilizzazione geometrica della scenografia. Il carattere d’ingegno creativo necessario ad approfondire l’evocativa correlazione tra personaggi e ambienti, immancabilmente contraddistinti dal leitmotiv dell’insistente pioggia, veleggia nell’inane déjà-vu. L’impossibilità di sopperire alle inevitabili zone tanto di stanchezza (a furia di copia e incolla) quanto di freddezza (dovuta all’egemonia del cervello, attaccato agli ammiccanti richiami citazionisti, sul cuore) traligna lo scandaglio dei luoghi sinistri in una sarabanda d’inutili stereotipi.

Si consuma perciò la speranza di assistere a una visione che apra nuove strade all’apologo sulla condizione frustrante patita dagli antieroi avvezzi ai giochi psicoanalitici. Il timbro ludico basta comunque a sopperire alla penuria d’un’impronta davvero personale. Gli espedienti estetizzanti, che raggiungono l’acme con l’effigie della candela che crea arcinoti contrasti chiaroscurali nella speranza di ottenerne le debite sfumature riflessive, sviliscono, viceversa, la natura sobria ed essenziale affidata qua e là alla cura dei dettagli. L’uomo immusonito, desideroso di scrollarsi di dosso la maschera d’indifferenza per scorgere nei puzzle degli eventi trascorsi il pezzo mancante e divenire degno del fatidico mutamento di prospettiva, rimanda ai cocciuti e trasandati investigatori cari ai seguaci dell’erudito realvisceralismo condotto in auge dal visionario romanziere Roberto Bolaño. Per compiere il decisivo giro di boa in quella direzione, per cui la sottotrama conta assai più della trama giacché lo status del girovago moderno, erede degli antichi chierici viaggianti, stimola la sete di conoscenze perdute lungo il tragitto dell’esistenza, ed ergo da recuperare nei meandri dei ricordi, manca lo slancio fiabesco congiunto agli emblematici motivi d’inquietudine d’ordine morale. L’ovvio utilizzo del deep focus, che accresce la sensazione d’incertezza nell’illusione di portare ulteriori frecce all’arco di una suspense sui generis, palesa l’assenza dell’inventiva capace di estrarre conigli dal cilindro. Congiungendo l’esame comportamentistico, in merito al bisogno di sconfiggere l’angoscia e affrontare la paura dell’ignoto, insieme al dono lirico che preserva dall’enfasi di maniera la carica occulta dei compositi simboli.

Le secche della retorica, a dispetto dei selciati bagnati da copione e dell’imperscrutabile cappa di fumo che avvolge i corridoi presi in prestito dai maestri delle parabole sulla deviazione nonché sul bisogno di chiudere il cerchio, vanificano, invece, i silenzi carichi di significato. La vanagloria di raggiungere prima il massimo dell’astrattezza straniante, con soluzioni narrative analoghe alle ingegnose trovate del compianto Jean-Pierre Melville nel giallo cult Frank Costello – Faccia d’angelo, costeggiando nel finale l’apologia sui sentimenti nutriti nonostante l’insistito clima di violenza, genera diverse stonature. L’irrinunciabile diritto alla fantasia, e dunque pure al bisogno di credere che il tenace Luo Hongwu possa ritrovare in zona Cesarini il salvifico profilo di Venere nella contea eletta ancora una volta ad attante gravido di false piste ed estremi crepacuori, è meritevole d’attenzione. Quella riposta da Bi Gan con Kaili Blues approdava alla meta prefissa grazie anche al persuasivo mix d’interni ed esterni con la leggenda autoctona sui primati dall’occhiata scintillante frammista alla sequenza subacquea dell’abbaglio rivelatore. Il groviglio, al contrario, in Un lungo viaggio della notte di popcorn ingurgitati al cinema, sulle ali della sospensione dell’incredulità, di paesaggi rurali, di posti nascosti, di bizzarri karaoke, cantati con gli antagonisti appesi a testa in giù, rivelano poco. Se non lo scorrere lento del tempo, dilatato con danze ed elementi esornativi, in attesa dello svelamento dell’ambìta verità. Peccato che la lentezza da ipnotica divenga irritante e svilisca la valenza metaforica custodita dalla lente d’ingrandimento dell’utopico tragitto.

 

 

Massimiliano Serriello