I miserabili: un film di strada poco nudo e molto crudo

L’uscita digitale sulla piattaforma MioCinema.it, a partire dal 18 Maggio 2020, del film di strada I miserabili di Ladj Ly, che gli spettatori poco scaltriti forse assoceranno prima di vedere all’ennesima trasposizione dell’omonimo romanzo di Victor Hugo, innesca parecchie riflessioni. In primo luogo sulla geografia emozionale.

L’idea di trarre partito nello scandaglio dell’universo periferico affrontato in chiave anche visionaria dall’incostante Mathieu Kassovitz nel cult movie L’odio, forte a sua volta dei rimandi a Taxi driver di Martin Scorsese, fiore all’occhiello della generazione dei registi underground cresciuti nell’idolatria del New American Cinema, si va ad appaiare al bisogno di rendere il territorio la vera star.

Obiettivo piuttosto ambizioso, se non azzardato, persino per gli autori restii a trarre partito dall’altrui ingegno, celando gli insiti plagi dietro i sentiti omaggi. Figuriamoci per chiunque voglia trasformare un cortometraggio in un lungometraggio attingendo ai nobili antesignani in materia di mitopoiesi. Caldeggiata dal Maestro austriaco naturalizzato statunitense Otto Preminger. L’intensa ed evocativa giornata, a dir poco particolare, vissuta indubbiamente fino in fondo dal trio poco assortito di sbirri in giro per Montfermeil – il quartiere parigino ad alto rischio, all’interno del dipartimento della Senna-Saint-Denis, dove l’estroso Victor Hugo individuò l’emblematico spazio in grado di riverberare la condotta degli uomini e delle donne in lotta contro l’empio atomismo sociale – lascia perplessi. Era un fatto circoscrivibile all’Ottocento? Oppure estendibile al giorno d’oggi? Occorre forse rispolverare i versi con cui lo scrittore transalpino introdusse il mirabile libro: “Finché esisterà, a causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale che in piena civiltà crea artificialmente degli inferni, e aggiunge una fatalità umana al destino, che è divino; finché i tre problemi del secolo, la degradazione dell’uomo nel proletariato, l’abiezione della donna per fame, l’atrofia del fanciullo per tenebra, non saranno risolti; finché, in certi settori, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e da un punto di vista ancor piú ampio, finché esisteranno sulla terra ignoranza e miseria, libri di questa specie potranno non essere inutili”.

I problemi del nostro secolo sono dunque gli stessi? I miserabili è allora un film utile o addirittura necessario? La scrittura per immagini mandata a effetto nell’incipit sembrerebbe optare per il sì. L’esplicito ricorso ad alcuni tormentoni cari agli spettatori intellettuali, o presunti tali, (dal pedinamento zavattiniano al lavoro di sottrazione d’ascendenza bressoniana che privilegia una cifra stilistica sobria ed essenziale) risulta, a lungo andare, l’ennesimo specchio per le allodole: a differenza di Fury ed End of watch – Tolleranza zero, contraddistinti dall’arguto esame comportamentistico frammisto dall’esperto David Ayer alle emozioni suscitate appunto dal carattere d’autenticità dei luoghi eletti a location, la virtù d’osservazione è latitante. Le scene di massa, i momenti di giubilo, l’effigie della Torre Eiffel, la cifra dell’amore, che si va ad amalgamare da copione a quella dell’odio, rientrano nell’ordinaria amministrazione. L’ostilità manifestata dal canzonatorio Chris al collega Stéphane, estraneo alle battute di spirito, mentre l’equilibrato Gwada contempla in pattuglia nella giusta misura sia il rispetto umano sia l’attitudine a scherzare per sconfiggere l’angoscia, funge da spia a qualcosa che stona. La componente manieristica del poliziotto giocondo e violento in contrasto con l’agente immalinconito e pacifico, nonché l’estrinsecazione dell’adagio latino In medio stat virtus adottato in maniera più persuasiva da Michele Soavi nell’intenso Il sangue dei vinti, risulta, infatti, molto stridente. Specie perché amalgamata alla bell’e meglio con l’uso della camera a mano. Incapace perciò di generare il dinamismo dell’azione. La velleità di contemperare l’efficacia adrenalinica degli inseguimenti colti quasi dal vivo da William Friedkin nell’indimenticabile Il braccio violento della legge e l’aura contemplativa di Nicolas Winding Refn sfocia in una deleteria noia. Non di piombo. Tuttavia abbastanza pesante.

L’ottica romanzesca, che assottiglia lo spasso della sospensione dell’incredulità, svilisce pure il minimo sindacale dell’intrattenimento, agli occhi del pubblico munito di licenza media, quando il ladruncolo di un cucciolo di leone viene arrestato dal terzetto. La visuale in cielo del drone, che cattura la mattanza compiuta dall’ingenuo tutore dell’ordine, reo di non aver mantenuto il sangue freddo nel momento di maggior tensione, diviene superflua. La brama di trovate creative tradisce la pigrizia delle idee prese in prestito dai nani sulle spalle dei giganti. Gli echi ne I miserabili di Training day, ravvisabili attraverso il confronto tra i reietti nella loro area periferica e i piedipiatti ritenuti ospiti indesiderati, sono uniti ai rimandi ai diversi apologhi sull’università della strada. Del giusto darwinismo antropologico non ve n’è però alcuna traccia. Neanche l’ombra. A dispetto dei continui tagli di luce. L’inversione di tendenza, col timido che rende pan per focaccia al superiore che sbraita in modo simile al Joseph Dredd di Sylvester Stallone (“Sono io la legge”), senza emularne il carisma nella variante della lingua francese al posto dell’accento yankee, svuota il vaso di Pandora. L’elemento etnico, connesso allo squilibrio a favore dei malvagi col cuore d’oro, accostabili ai puffi che giocano a basket, resta un mero pretesto. Al pari dell’impianto corale, allestito sul modello di Robert Altman ed Ettore Scola, del Salām-Aleikum pronunciato a ripetizione, dell’utopica convivenza dei rappresentanti dell’Africa sub sahariana, dei bianchi e degli zingari circensi al momento della vittoria del Mondiale di calcio. La troppa carne al fuoco, con le tecniche di straniamento alla Lars von Trier e il found footage per allungare il brodo del previo corto, avvezzo al concetto post-pasoliniano della borgata, avvolge così nell’insulsa prevedibilità gli imprevisti conclusivi de I miserabili.

 

 

Massimiliano Serriello